Tre sono le ragioni d’essere della legge penale: due primarie e una conseguente. La prima è dissuadere. La seconda è punire, o meglio retribuire la condotta con la sanzione adeguata. La terza è recuperare il reo alla vita consociata, che ha senso solo se le prime due funzionano. Ma la legge che non dissuade e che non punisce tradisce se stessa. Così è per la legge italiana che vorrebbe istituire il reato di tortura.
Il nostro legislatore l’ha redatta costituendo l’ipotesi di un reato COMUNE, che può essere commesso da chiunque, come il furto o l’omicidio. Ma l’Italia, che arriva 65 anni dopo la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950, 31 anni dopo la Convenzione di New York del 1984, che ha respinto al mittente le messe in mora dell’ONU e che nel 2006 ha risposto al Comitato Europeo contro la Tortura con le parole beffarde: tale reato è out of our mentality, finge di non sapere che la tortura è invece il delitto del potere dello Stato. Il delitto più infame che lo Stato possa commettere contro un cittadino inerme alla sua mercé. E’ l’abietto maltrattamento inumano e degradante di cui all’art. 3 della CEDU, portato alle più nefaste conseguenze. E può essere commesso, per sua stessa natura, solo dallo Stato nella persona del suo organo. Questa è la ragione, lo spirito che anima tutte le Convenzioni Internazionali che la vietano, fin dalla Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, passando per la CEDU , la Convenzione di NY, e fino ai Protocolli ONU del 2002.E tutte queste Convenzioni l’Italia ha ratificato. Ha solo omesso di istituire questo reato come reato PROPRIO.
Parte male: anzi non parte affatto, il legislatore italiano, perché tradisce lo spirito di tutte queste Convenzioni, fallendo nella sua deterrenza, perché l’efficacia di una legge che abbia per destinatario il potere dello Stato quando viene esercitato nel modo più aberrante e abbietto, non deve lasciare scampo a chi si macchia di tale onta. E dev’essere imprescrittibile. E invece la pena minima, che è quella da cui partono i giudici, di fatto, nel sanzionare la condotta del reo, è di 3 ANNI DI RECLUSIONE. TRE anni significano, nel nostro sistema, DUE anni con la concessione delle attenuanti generiche ( che difficilmente si negano) e, nel caso del patteggiamento o del rito abbreviato, ANNI UNO E MESI QUATTRO. A cui seguono i benefici di legge. Arma spuntata, dunque.
Tuttavia il legislatore ha previsto che se l’autore della tortura è un Pubblico Ufficiale, la pena è sensibilmente aumentata. Ma è un’aggravante: non si tratta di un reato autonomo. E le aggravanti entrano nel bilanciamento con le attenuanti, che, se sono giudicate equivalenti (e come non concederle al Pubblico Ufficiale incensurato e magari sedicente pentito?) fanno sparire l’aggravante, e questo significa tornare alla pena base del reato comune. Se poi ipotizziamo il risarcimento del danno, scendiamo ad anni 1 e mesi 4, e se ci aggiungiamo un bel patteggiamento scendiamo di un altro terzo, oppure se il tutto avviene con il rito abbreviato!
La pena prevista dal nostro legislatore è dunque scarsamente punitiva e non costituisce idoneo deterrente. Ma non è tutto. Per aversi tortura, il nostro solerte artefice delle leggi ha ipotizzato che sull’inerme alla mercé del torturatore, debbano essere commesse VIOLENZE. E non VIOLENZA. E la differenza tra l’uso accorto del singolare invece del plurale è palese ( fatte salve sottili interpretazioni in malam partem), per cui, ipotizziamo, lo spegnimento di una sola sigaretta nell’occhio della vittima non sarebbe tortura! Ma il legislatore ha pure pensato che non basti una serie di violenze per integrare il reato, ma pure che la vittima debba trovarsi sotto la tutela, cioè sotto il potere del P.U. ( tipico il caso dell’arrestato). Così sorgono dubbi interpretativi: che succede in caso analogo alla “Macelleria messicana” commessa alla scuola DIAZ nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 a Genova? Gli agenti entrarono e massacrarono le vittime, che però non erano ancora state arrestate. Non fu tortura quella? La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha delirato allora con la sentenza di condanna dell’Italia del 7 aprile 2015? Allora dov’è la deterrenza? Ma c’è di più: nella legge di parla di “Sofferenze” non di malattia o di danno. Indeterminate dunque.
Infine la legge specifica che c’è differenza tra la morte non voluta del torturato ( punita con 30 anni di reclusione) e la morte voluta, punita con l’ergastolo. La legge così istituisce il principio che, se alla commissione deliberata e cosciente di torturare un essere umano segue la morte di questi, il giudice debba entrare nel merito per verificare se il torturatore avesse in animo “solo” di torturare e non di uccidere, come nell’omicidio preterintenzionale, dove la morte si verifica perché oltre l’intenzione dell’agente. Singolare inversione dell’onere della prova!
Si dice: meglio questa legge che nessuna legge. Obiettiamo: meglio nessuna legge che una legge ingiusta. E’ più difficile combattere contro una legge ingiusta camuffata da legge giusta, che lottare per ottenerla nella vacuità legislativa.
*Roberto Settembre è nato a Savona nel 1950. Dopo alcuni anni di attività forense, è entrato in magistratura nel 1979 e ha lavorato quasi sempre nel settore penale. È stato l’estensore della sentenza d’appello sui fatti accaduti nella caserma di Bolzaneto, poi resa definitiva dalla Cassazione. Su questa drammatica vicenda ha scritto un libro, Gridavano e piangevano, pubblicato da Einaudi nel 2014. È uscito dall’ordine giudiziario nel 2012.