Grandi opere e corruzione: il paradigma neoliberista del “modello Incalza”

18 Marzo 2015

Dovremo chiedere scusa all’indimenticato ex-ministro Claudio Scajola. Il quale avrà risparmiato oltre un milione di euro nell’acquisto della sua residenza romana con vista Colosseo, grazie agli assegni elargiti “a sua insaputa” da un munifico imprenditore in affari con la “cricca” della Protezione Civile, ma almeno ha pagato il prezzo dello scandalo con le dimissioni. Mentre all’epoca il boiardo per tutte le stagioni “Ercolino” Incalza restò inamovibile ai vertici del ministero dei lavori pubblici, nonostante gli 820 mila euro che il medesimo imprenditore della “cricca” aveva premurosamente messo a disposizione di suo cognato per l’acquisto di un immobile nei paraggi di Piazza

Dovremo chiedere scusa all’indimenticato ex-ministro Claudio Scajola. Il quale avrà risparmiato oltre un milione di euro nell’acquisto della sua residenza romana con vista Colosseo, grazie agli assegni elargiti “a sua insaputa” da un munifico imprenditore in affari con la “cricca” della Protezione Civile, ma almeno ha pagato il prezzo dello scandalo con le dimissioni. Mentre all’epoca il boiardo per tutte le stagioni “Ercolino” Incalza restò inamovibile ai vertici del ministero dei lavori pubblici, nonostante gli 820 mila euro che il medesimo imprenditore della “cricca” aveva premurosamente messo a disposizione di suo cognato per l’acquisto di un immobile nei paraggi di Piazza Flaminia, preventivamente approvato dallo stesso Incalza, dopo essere già sopravvissuto professionalmente a 14 procedimenti giudiziari per corruzione e affini, cancellati da assoluzioni e prescrizioni. E sembra intenzionato a mantenersi ben stretta la poltrona anche il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi, che di Incalza è stato – a giudicare dal tono di certe intercettazioni – il protetto ancor prima che il protettore. E che accampa una bizzarra giustificazione – del genere “io non ho mai chiesto nulla” – nell’autoassolversi per i Rolex da 10mila euro e i contratti di lavoro assicurati al figlio dallo stesso imprenditore che alla luce del sole gestiva lavori per 25 miliardi col suo ministero, mentre nell’ombra, secondo i magistrati, faceva affari col suo superdirigente e superconsulente Incalza.
In attesa che il recordman Incalza inanelli il primato della quindicesima assoluzione o prescrizione, lo squarcio nell’universo sotterraneo della corruzione italiana aperto dall’inchiesta fiorentina può servire forse a coglierne alcuni segni, da leggere assieme a quanto già affiorato con la triade di scandali del 2014: Expo, Mose, Mafia Capitale. Prima notazione: in Italia il binomio grande opera/grande evento è generatore soprattutto di un grande rischio corruzione, e solo occasionalmente di una grande utilità sociale. Perché in questi casi tanto la complessità tecnica di progettazione e realizzazione che la confusa stratificazione di norme e procedure da rispettare sono incompatibili coi tempi di lavorazione di una pubblica amministrazione impoverita di competenze e reputazione. E allora la soluzione miracolosa portata in dote è sempre la stessa: una privatizzazione – di fatto o di diritto – di programmazione e decisioni apparentemente pubbliche. Spazio allora a concessionari, general contractors, progettisti/consulenti ammanigliati con la politica, massima libertà d’azione per i faccendieri dalle mille entrature. Spetterò a loro dettare condizioni agli enti pubblici, decretare in concreto tempi (e inevitabili contrattempi) dei lavori, autocertificare i costi. I soggetti privati si limitano ad accogliere blande direttive, ammorbidite dall’intesa sottobanco con l’alto di dirigente di riferimento, il quale formalmente sovrintende ma di fatto accondiscende, previa retribuzione in nero, di solito elargita con modalità contabilmente sofisticate – certo non più con le volgari (e pericolose) bustarelle.
In questa gestione privatistica i controlli dello stato naturalmente si diluiscono, scompaiono del tutto quando i controllori sono a libro paga, nominati dagli stessi controllati o dai dirigenti corrotti che li proteggono. E’ il caso dei direttori dei lavori per gli appalti “modello-Incalza”: quello inquisito, a giudizio di un imprenditore, “non faceva nulla, non si vedeva mai. Prendeva solo i soldi. La direzione dei lavori per il nodo alta velocità di Firenze era uno stipendificio”. I margini di profitto, o meglio di rendita? E’ sufficiente una variante per opere accessorie – che non si nega a nessuno – e “hanno aumentato del 40% il valore dell’opera”. Basta trovarsi nel giro giusto, e la rendita è assicurata: “Devi riuscire a prendere una impresa seria che sappia fare bene i lavori e ti prendi dell’opera: il 30% te lo porti a casa”. Si provi ad applicare simili percentuali ai 25 miliardi gestiti da questa piccola cricca, o ai circa 100 miliardi delle linee Tav assegnate seguendo il “modello Incalza”, per farsi un’idea dell’ordine di grandezza della mangiatoia di stato. Risorse sottratte anzitutto a scuola, università, servizi sociali, cultura, assistenza sanitaria, attraverso una cancellazione scientifica di diritti sociali e di cittadinanza, un depauperamento che grava soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione. Colpa delle ristrettezze di bilancio, si dice. Che però miracolosamente scompaiono quando occorre finanziare grandi opere e grandi eventi di dubbia utilità, ma soprattutto di foraggiare le cricche di riferimento. In quei casi i capitali pubblici si trovano sempre, magari tagliando un altro po’ di servizi pubblici.
Il ruolo della politica? Marginale persino nelle quote di tangenti incassate, poco più di un’elemosina, spesso riciclata in campagne elettorali o nella guerra tra bande interna ai partiti. E’ una politica inerme di fronte al sapere specialistico di chi sa cucire norme e procedure come abiti di sartoria per l’esercizio di una “corruzione a norma di legge”. Una politica nella quale l’unica appartenenza che conta è quella che marca i confini degli affari più lucrosi, come dimostra l’antica consuetudine di un coinvolgimento bipartisan, dove qualsiasi parvenza di contrapposizione sfuma nella consapevolezza della ricattabilità condivisa. Persino la nomina dei sottosegretari serve a compiacere il vero dominus, l’altissimo boiardo di stato che transita da un ruolo apicale all’altro restando il vero garante del sistema, e si è pronti a far cadere il governo se solo si attenta alla continuità del controllo sulla “sua” struttura tecnica di missione, grumo di potere che nel Ministero salvaguarda la gestione accentrata dei “grandi appalti” inquinati.
A fronte di una politica in via di liquefazione, ben strutturate appaiono invece le reti di una corruzione spesso eletta a sistema e metodo di governo. Coerentemente col paradigma neoliberista, infatti, nei vari e assortiti comitati d’affari si realizza una privatizzazione del bene comune, convertito in potere d’acquisto e spartito tra i pochissimi partecipanti al gioco della corruzione. Tensioni, controversie, attriti, sempre possibili dati gli appetiti in ballo, sono ricomposti in virtù del comune riconoscimento di un centro di autorità – se disponibili sono graditi a questo scopo persino i servigi di un’organizzazione criminale, meglio se autoctona come Mafia Capitale. Ma per costruire un meccanismo di autoregolazione interna è sufficiente l’affermarsi di una figura di riferimento, qualcuno “che decide i nomi…fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro…o dominus totale”, uno che “al 100% non si muove una foglia…si sempre tutto lui fa…tutto tutto tutto!…ti posso garantire…ho parlato con degli amici..”. Una corruzione organizzata, nei confronti della quale persino la tanto invocata riforma anticorruzione – dai confini ancora molto nebulosi – rischia di tradursi in un nulla di fatto, quanto consapevole o deliberato non ci è dato di sapere.
Dovrebbe poi destare qualche preoccupazione in più il fatto che il modello di “catena di comando” che l’agenda politica delle riforme a tappe forzate prevede di applicare ad ogni livello – da quello di governo, a quello “manageriale” della dirigenza amministrativa, fino alla Rai e alle scuole – ricalchi il modello-Incalza, che poi è analogo a quello della “cricca della Protezione civile”, fino agli scandali incensata come paradigma efficientista da imitare e replicare. Un “dominus” sciolto da vincoli e impacci, forte di un’investitura politica – dall’alto o dal basso, a seconda del ruolo – cui si attribuiscono grandi poteri in assenza di contrappesi e strumenti efficaci di controllo. Se è vero – ce lo insegna Spiderman – che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, quando queste ultime si attenuano aumenta esponenzialmente il rischio che quel potere si corrompa. E allora dall’uomo ragno a Lord Acton il passo è breve: “Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe in modo assoluto”. Quali effetti “criminogeni” possono scaturire dall’accentramento di poteri ai vertici dell’esecutivo disegnato dalla riforma costituzionale, in un paese nel quale, secondo indicatori convergenti, l’adesione a reti di corruzione e la collusione con le mafie della classe dirigente – nel mondo della politica, dell’amministrazione, dell’imprenditoria, delle professioni – hanno da tempo superato la soglia di guardia?

*Alberto Vannucci è docente di Scienza Politica all’Università di Pisa

[una versione più breve di questo contributo è stata pubblica sul blog de “Il fatto quotidiano”]

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