Quando dice che «la partita delle primarie è falsata», Valerio Onida fa senza dubbio un’affermazione molto grave, così grave da indurre lo «sconcertato» presidente del comitato per le primarie milanesi, Costanzo Ariazzi, a dimettersi. Onida parla di Milano, ovviamente. Ma solleva, di fatto, una questione nazionale. Sostiene che a giocare scorretto è il Pd. Che prima ha scelto il suo candidato per Palazzo Marino, Stefano Boeri. E poi per Boeri, e solo per Boeri, ha messo in campo tutta la sua «forza organizzativa». Snaturando così le primarie e mettendo in fuorigioco i candidati senza partito. A prima vista, l’argomentazione «antipartitocratica» che ha sollevato la tempesta è un po’ ingenua, e la replica del Pd milanese ha una sua forza: perché mai un grande partito non dovrebbe indicare un candidato, e sostenerlo con tutta la forza e tutta la passione di cui dispone? Ma è sul senso delle primarie, e prima ancora sulla funzione e sul carattere effettivamente democratico dei partiti, che ci si accapiglia. Non dei partiti in generale, intendiamoci: di questi partiti. Che sono certo insostenibilmente leggeri, forse gassosi più ancora che liquidi (a che cosa si riferisca Onida quando parla di «forza organizzativa» del Pd milanese non è facile dire). E però sono pure insostenibilmente opachi; e soffrono di un vistoso deficit di democrazia interna. Dove e come si formi una decisione politica, e quanto e come gli iscritti vi concorrano, non è dato sapere con esattezza. Molto probabilmente, della scelta del Pd per Boeri, felice o meno che sia, la maggior parte degli iscritti milanesi al partito ha appreso dai giornali o dalla Rete, proprio come il più vasto «popolo delle primarie»: se c’è stata prevaricazione, sono stati prevaricati loro per primi. Tutto ciò potrebbe persino, paradossalmente, rassicurare chi, come Onida, lamenta il potere, o lo strapotere, degli apparati. In un contesto simile, la disciplina di partito, anche al momento del voto, conta quello che conta, e cioè molto poco (se ne potrebbe accorgere anche Pier Luigi Bersani, che pure è stato eletto segretario con le primarie, quando verrà, sempre che venga, il momento della conta con Nichi Vendola). Ma il succitato potere, o strapotere, degli apparati, si esercita in molti altri modi, in specie in una partitocrazia senza (veri) partiti come la nostra. Un piccolo (?) esempio. Colpisce che al centro della contesa che squassa il centrosinistra milanese ci sia un problema di indirizzari: una questione assai prosaica, e però sintomatica, perché investe la possibilità stessa dei candidati di entrare in contatto con la platea elettorale cui si rivolgono. L’elenco dei votanti (di tutto il centrosinistra) nelle primarie per il candidato sindaco del 2006, chissà perché, non lo ha nessuno. Quello per l’elezione del segretario nazionale e regionale del Pd, nel 2009, invece, ce l’ha ovviamente il Pd medesimo. Che però, guarda caso, se lo tiene ben stretto, e lo utilizza solo per la campagna elettorale del suo candidato, mettendo così gli altri nei guai. Sostiene Boeri che anche lui, come gli altri concorrenti, viene dalla società civile (verissimo) e personalmente dispone solo di una lista di 700 nomi raccolti a fatica. Ha ragione. Ma ne avrebbe di più, e farebbe pure un figurone, se chiedesse ufficialmente al Pd di mettere il suo elenco, ben più nutrito, a disposizione anche della concorrenza, dichiarandosi pronto, in caso contrario, a rinunciare alla candidatura; e se pretendesse dal centrosinistra l’impegno solenne a conservare e a rendere consultabili da tutti, d’ora in poi, le liste dei partecipanti alle votazioni. Piccole cose, per carità. Ma importanti per restituire un po’ di credibilità a un istituto, quello delle primarie, che rischia seriamente di perderla. Non solo a Milano.
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