Sindona, funambolo del ‘900

09 Ott 2009

Nelle conclusioni del loro “Il caffè di Sindona” gli autori si domandano: “Qualcuno potrebbe osservare che le vicende narrate in questo libro sono storie d’altri tempi. Ciò è vero, almeno in parte”. Per scrivere poco dopo, finito di accennare ai cambiamenti avvenuti nel nostro Paese e nel mondo negli ultimi vent’anni, che “l’Italia è ancora ai primissimi posti in Europa per corruzione, trame oscure e strapotere delle varie mafie e camorre”.Le vicende narrate nel “Caffè di Sindona” (Garzanti) sono dunque contemporanee, ci riguardano.Leggendo il libro capita di domandarsi: “Chi sono i Sindona di oggi?” E anche: “Qual è la banca asservita ai poteri criminali (o meglio complice), poteri criminali che per i loro loschi traffici hanno sempre bisogno di avere a disposizione uno o più istituti di credito, come accadde con la Banca privata Finanziaria di Sindona e poi con il Banco Ambrosiano di Calvi?Si capisce come è utile e necessario questo libro di Gianni Simoni e di Giuliano Turone in un paese come il nostro dove la memoria non è una virtù. Si tende spesso, infatti, dolosamente, a cancellarla.Simoni e Turone erano legittimati a scrivere questo libro, forse era loro dovere farlo. Entrambi magistrati sono stati infatti protagonisti delle cupe vicende che raccontano: “Un finanziere d’avventua tra politica, Vaticano e mafia”, recita il sottotitolo del “Caffè di Sindona”.Simoni è stato il sostituto procuratore generale del processo d’appello per l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli ed è l’autore dell’inchiesta giudiziaria che accertò il suicidio di Sindona, ucciso nel carcere di Voghera dal cianuro di sodio contenuto in una tazza di caffè.Turone ha condotto, con Gherardo Colombo, l’inchiesta sull’omicidio Ambrosoli dalla quale sortì la scoperta, a Castiglion Fibocchi, nell’azienda di Licio Gelli, delle liste della Loggia massonica P2.Questi due magistrati-scrittori hanno conosciuto bene Michele Sindona e avrebbero potuto raccontarci come era, visto da vicino, quell’uomo dall’intelligenza sinistra.

Non concedono nulla, invece, non accennano mai a se stessi, hanno scritto un saggio rigoroso fondato sui fatti e sugli atti di giustizia che, vista anche la personalità degli autori e la loro esperienza, è un documento importante, utile per la storia di questi anni.Michele Sindona, dunque. Dagli altari alla polvere. Fu considerato un genio della finanza, “il salvatore della lira”, come disse Giulio Andreotti negli Stati Uniti nel dicembre 1973, e quando la fortuna e le protezioni vennero a mancare fu bollato come il “bancarottiere di Patti”, “il bancarottiere siciliano”, per togliere anche la più piccola ombre dalla “capitale morale”.Figlio di un impresario di pompe funebri o meglio di un fiorista specializzato nella confezione di corone mortuarie, Sindona studia al paese natale, si laurea in giusisprudenza a Messina, lavora in uno studio legale, si specializza nelle questioni fiscali, mette in piedi qualche traffico, ma nel 1946 – ha 26 anni – approda a Milano dove mette su uno studio in via Turati, davanti alla Permanente. E’ rapido nel crearsi amicizie. Fiscalista, speculatore di aree fabbricabili, intermediario in trame finanziarie, si fa le ossa. D’accordo con uomini corrotti della Guardia di finanza li indirizza a ispezionare aziende di cui è consulente e divide con loro i proventi delle mazzette. Mira subito in alto. La massoneria, la mafia italo-americana, il Vaticano e la sua banca, lo Ior, i servizi segreti sono, fin dagli inizi, i suoi appigli protettivi.

Il primo novembre 1967, il capo della polizia criminale di Washington scrive alla Criminalpol di Roma chiedendo notizie su Daniel Anthony Porco, Michele Sindona, Ernest Gengarella, Vito Rolph – sarano i suoi fedeli soci per tutta la vita -: c’è il sospetto che i quattro siano implicati nel traffico di stupefacenti. Il questore di Milano Giuseppe Parlato, al quale viene trasmessa la richiesta americana, nega, con stile burocratico, che Sindona e Porco siano coinvolti in traffici illeciti. “La lettera – commenterà la relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona – non fu seguita (e certamente neppure preceduta) da nessuna seria indagine. “Il caffè di Sindona” non si perde nelle minuzie. Racconta l’ascesa di Sindona, la perfetta conoscenza dei paradisi fiscali, l’abilità di costruire proficui rapporti. Perfino con l’arcivescovo di Milano, il futuro papa Giovan Battista Montini. Conosce il futuro arcivescovo Marcinkus, quasi un suo doppio; conosce Richard Nixon; entra in contatto con uomini dei servizi segreti di mezzo mondo. “Riesce rapidamente a controllare – documenta il “Caffè di Sindona” – un gran numero di banche e di società finanziarie e una buona fetta dei titoli quotati in Piazza Affari.E’ un’ascesa inarrestabile, la sua. A partire dal controllo della Fasco, in Liechtenstein, e del suo cospicuo patrimonio immobiliare.La Fasco, per la geniale e fulminea iniziativa dell’avvocato Ambrosoli, nell’ottobre 1975, segnerà anche l’inizio della fine di Sindona, fuggito negli Stati Uniti, alloggiato all’Hotel Pierre, sul Central Park.

La potenza di Sindona sembra non avere limiti. Dopo la Fasco, ha rapporti con la Hambros di Londra e acquista la Banca Privata Finanziaria di Milano. Cosa nostra protegge i traffici del mago della finanza. “Il suo – scrivono Simoni e Turone – è un impero composto da una miriade di società domiciliate nei paradisi fiscali di tutto il mondo”. A contare di più sono le operazioni finanziarie effettuate per conto del Vaticano nei paradisi fiscali, appunto. Nel 1970, poi, Sindona conosce Roberto Calvi, l’allievo, vicedirettore generale dell’Ambrosiano, la banca dei preti, un capitolo tragico.Poi tutto crolla. Nel 1974, per iniziativa dell’ambasciatore americano in Italia John Volpe, Sindona diventa “l’uomo dell’anno”. Lo è davvero.Il 14 ottobre il Tribunale civile di Milano dichiara lo stato di insolvenza della Banca Privata Finanziaria, il 24 ottobre viene emesso il mandato di cattura nei confronti del banchiere, il primo marzo 1975 viene avviata la procedura per l’estradizione. Sarà concessa, tra inciampi, protezioni, stravaganze giuridico-diplomatiche quasi dieci anni dopo, il 25 settembre 1984.”Il caffè di Sindona” registra quel che accade negli anni di Giorgio Ambrosoli commissario liquidatore della banca. Anche chi conosce un po’ quei fatti rabbrividisce ancora oggi davanti a quel magma di illegalità e di disprezzo per la comunità che hanno tenuto in poco conto le regole e le leggi di uno Stato di diritto. L’avvocato Ambrosoli era esterrefatto e dolente – risulta dalle sue agende-diario – di trovarsi nemici uomini che avrebbero dovuto essere naturalmente al suo fianco nello svolgimento dell’incarico che gli era stato affidato dalla Banca d’Italia: presidenti del Consiglio – Andreotti -, ministri, generali, banchieri.

Con puntiglio il libro di Simoni e di Turone ripercorre le fasi, dal 1974 al 1979, del lavoro dell’avvocato, integerrimo esempio dell’Italia civile: il marchingegno dei depositi fiduciari smascherato con pazienza e con intelligenza, il frenetico attivismo della mafia italo-americana, gli affidavit, dichiarazioni giurate firmate da personaggi più o meno illustri – magistrati, uomini di partito, affaristi – che si propongono di strappare Sindona dall’estradizione per bancarotta fraudolenta: è un perseguitato politico – scrivono – vittima del partito comunista. E poi il libro spiega i piani di salvataggio che tendono a far rivivere, a spese dei contribuenti, la banca andata in malora. E’ la loggia massonica P2 a governare il caso Sindona.Tutti i personaggi dell’operazione, o quasi, sono uomini della Loggia: Sindona, Calvi, Umberto Ortolani, Gaetano Stammati, Robert Melmo, Loris Corbi, Carmelo Spagnuolo, Edgardo Sogno, Massimo De Carolis, altri. La P2 è lo stato maggiore, la stanza di compensazione, il luogo della mediazione, l’agenzia d’affari, il nodo di una ragnatela capillare e diffusa che dispone i suoi uomini nei più delicati settori della società e delle istituzioni. E’ un’organizzazione criminale, la “metastasi delle istituzioni”, come scrive Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare sulla Loggia P2 nella Relazione conclusiva. Altro che club di gentiluomini, come ha detto l’attuale presidente del Consiglio affiliato alla Loggia.
C’è un documento della P2, il Piano di rinascita democratica che inquieta perché quei progetti, in un clima di degrado civile e di caduta antropologica come quello che stiamo vivendo, sono ancora oggi nell’agenda politica della maggioranza di governo: la Rai-Tv dissolta in nome della libertà di antenna; la completa revisione della Costituzione; la concessione di forti sgravi fiscali per agevolare il ritorno dei capitali dall’estero; il pubblico ministero assoggettato al Guardasigilli; il Csm responsabile nei confronti del Parlamento.La morte di Sindona nel carcere di Voghera pochi giorni dopo la condanna all’ergastolo per l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli è l’altro tema centrale del libro.

Che cosa pensano di Sindona i due autori?Le definizioni che danno del banchiere non si smentiscono mai nel corso del libro: “Esteta della simulazione”, “Simulatore smodato, narcisista e un po’ infantile”; “grande simulatore”; “Autentico Fregoli dei trasformismi malandrineschi e dei camuffamenti estorsivi”. E poi: “La sua audacia simulatoria raggiunge vette quasi ammirevoli”; “la sua parossistica foga simulatoria”. La sua ultima avventura nel carcere di Voghera è ricostruita con assoluto vigore. Quella tazzina di caffè è analizzata con minuzia al microscopio delle prove. E la prova principe del suicidio, al quale i due autori credono motivando il loro convincimento, è il cianuro di sodio che ha un odore e un sapore assai sgradevoli, quasi simile al petrolio. Il suo grido “Mi hanno avvelenato” farebbe parte della gran finzione, specchio veritiero del personaggio.Bisogna dire che in carcere Sindona non rinunciò mai ai suoi tentativi di salvarsi, non sembrava uno che avesse rinunciato a battersi. Scrisse infinite lettere, tra l’altro ricevette più visite ambigue di un uomo della Cia americana, Carlo Rocchi, che divenne il suo ultimo interlocutore e al quale fece richieste dissennate. Gli autori non hanno dubbi: secondo loro la morte di Sindona, il 20 marzo 1986, fu suicida. Un suicidio simulato da omicidio. La morte come suprema beffa di un funambolo del Novecento.
* Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo il testo di presentazione del libro di Gianni Simoni e di Giuliano Turone: “Il caffè di Sindona”, letto nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano, giovedì 8 ottobre.

All’incontro erano presenti Gherardo Colombo e Valerio Onida, oltre che gli autori del libro.

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