Dialogo sulla pace in Ucraina

02 Nov 2022

Elisabetta Rubini Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Sergio Labate

Libertà e Giustizia ha aderito alla manifestazione per la pace che si terrà il prossimo 5 novembre a Roma. Un’adesione che nasce dalla convinzione unanime che perseguire la pace debba essere la priorità. Anche noi, come tante Associazioni, ospitiamo posizioni differenti circa ciò che sia lecito fare o non fare per perseguire la pace. Proprio per questo rendiamo pubblico un dialogo a partire dalla piattaforma del 5 novembre tra due membri del nostro Consiglio di Presidenza, (Elisabetta Rubini e Sergio Labate) che vuole essere testimonianza di quanto in questo momento sia necessario riconoscersi come interlocutori anche quando si hanno visioni in parte diverse.

1. Non esiste una guerra giusta?

Elisabetta Rubini – Il prossimo 5 novembre molte associazioni hanno convocato una grande manifestazione a Roma intitolata “Europa per la pace”, alla quale anche Libertà e Giustizia ha aderito. Pur condividendo in gran parte i contenuti del manifesto che ha lanciato questa iniziativa e, soprattutto, l’auspicio che la guerra in Ucraina abbia fine il prima possibile, mi pongo alcune domande. La frase che chiude il manifesto, secondo la quale “nessuna guerra è giusta”, ha senso in termini astratti: la guerra è un male in sé, dunque non può essere giusta. Ma se applichiamo questa affermazione alla realtà della guerra in Ucraina, emerge tutta la sua ambiguità, o quantomeno ingenuità: se si considera che la guerra in Ucraina è il risultato della resistenza del popolo e dell’esercito ucraino ad una invasione armata da parte di uno stato terzo, e che in assenza di questa resistenza il paese ucraino non esisterebbe più, o almeno non esisterebbe più come stato sovrano, è difficile negare che la guerra di resistenza agli invasori russi sia una guerra giusta.

Sergio Labate – Non nutro dubbi sul fatto che quell’affermazione cui ti riferisci possa essere letta come una tesi così sommaria da vanificare in un attimo una discussione che si può ben definire millenaria. È da quando il pensiero intercetta l’enigma della violenza che la questione della guerra giusta diventa oggetto di riflessione. Ciononostante, sono persuaso che nella sua ingenuità, quella frase andrebbe presa sul serio, perché è il risultato di una storia recente del modo umano di fare i conti con la guerra. Ecco, per dirla con una battuta: io non sono preoccupato dalla facilità con cui si ribadisce che la guerra non è giusta, ma da quella con cui si afferma senza alcuna problematizzazione che la guerra possa essere giusta. Temo che la mia posizione sia motivata da una forma di incredulità che provo dinanzi alla rimozione della storia recente della guerra.

Ci sono due momenti che mi sembrano oggi letteralmente rimossi – la natura psicologica di quest’operazione è fin troppo chiara. Il primo momento è legato alla fine della seconda guerra mondiale e alla minaccia nucleare. Io appartengo a una generazione che ha per fortuna vissuto solo gli ultimi strascichi di quell’epoca. Ma è impressionante che l’evidenza che orientava tutta quella discussione – il semplice fatto che da adesso in poi nessuna guerra sistemica potesse essere giusta nella misura in cui essa contiene in sé la minaccia dell’estinzione del genere umano – è come se non ci fosse mai stata. All’origine dell’art. 11 della Costituzione c’è precisamente questa consapevolezza: un’altra guerra mondiale non sarebbe che l’ultima. Invece mi appare chiaro che si parla ormai della legittimità della guerra e della liceità o meno della via diplomatica come se stessimo parlando di una guerra regionale o di una guerra senza la possibilità dell’aggravamento atomico. Ecco, il punto decisivo – così decisivo che ci ritornerò anche alla fine – è proprio questo: è lecito valutare la legittimità di una guerra senza pensare alle sue potenziali conseguenze? E questa guerra si può pensare ignorando – o semplicemente sospendendo il giudizio – lo scenario atomico che incombe? La mia risposta è che non si possa ignorare e che questo comporta un surplus di responsabilità potenziale che trasforma il senso stesso di una presunta guerra giusta, per come le abbiamo vissute e legittimate prima della seconda guerra mondiale.

Se prendiamo sul serio questo primo momento, quell’affermazione ingenua diventa addirittura un postulato della ragione politica: non può esserci guerra giusta nella storia, poiché le conseguenze della guerra in regime di minaccia atomica saranno sempre sproporzionate rispetto alle cause legittime. Ovviamente ciò non vuol dire affatto abbandonare gli ucraini a se stessi, ma il contrario. Cercare di occuparsi non solo delle sofferenze presenti ma anche della potenziale violenza futura. Questo mi pare il primo senso di quell’affermazione. L’atomica non è un potenziale strumento, è un codice che riscrive la guerra, la sua legittimità e le sue motivazioni. Si potrebbe sintetizzare così: dentro un sistema che contiene in sé il rischio atomico, ogni (eventuale) legittimazione della guerra decade, perché le conseguenze della guerra giusta vanno ben oltre il semplice diritto di difesa cui si fa sempre riferimento. Immagino – davvero è solo una domanda – che questa posizione per cui si possa giudicare la situazione ucraina come se non ci fosse un contendente che agita la minaccia nucleare si fondi sulla minimizzazione di tale minaccia: cioè parte dal presupposto che Putin non giunga davvero all’uso delle armi atomiche. Ecco, io prendo invece molto sul serio Putin e lo temo molto più di quel che lo temono coloro che difendono ogni opzione bellica in campo.

Io non credo alle guerre giuste, ma se anche ci credessi direi che in regime di minaccia nucleare persino le guerre più giuste comportano una serie di conseguenze che le rendono decisamente da evitare. Si chiama etica della responsabilità atomica, niente di nuovo anche se dimenticato. E gli ucraini? Mi dirai. Hai ragione. Ma non si tratta di consegnarli al nemico, si tratta piuttosto di salvarli dalla sua arma più minacciosa. È solo non entrando in guerra ma tessendo disperatamente vie diplomatiche che si può fare tutto questo. Vengo così al secondo momento rimosso della storia recente della guerra. Per decenni il trauma atomico è servito a farci ricordare che la contiguità tra guerra e politica può e deve trasformarsi in un’opposizione: che la guerra non è più una continuazione della politica con altri mezzi, ma è la sua fine. Mentre la politica è l’unica forma collettiva che abbiamo per affrontare i conflitti mettendoci al riparo dalla guerra. Dove fallisce la politica e torna la guerra, il rischio è che finisca il mondo degli esseri umani. Poi è successo qualcosa, a cavallo dell’inizio del millennio. La dottrina della guerra giusta è tornata di moda, per legittimare operazioni internazionali che non solo erano dubbie ma che hanno avuto conseguenze geopolitiche di cui ancora paghiamo le conseguenze. Le democrazie liberali hanno ricominciato non solo a fare la guerra (cosa che purtroppo non hanno mai smesso di fare) ma anche a giustificare la guerra come principale strumento da usare per la politica estera. Ecco, comunque la si pensi, vorrei che le democrazie liberali non si dimenticassero di quei cinquant’anni in cui hanno cercato di opporre la dignità delle parole alla barbarie della guerra. E che non usassero la dottrina della guerra giusta per sostituire la necessità delle parole.

2. E se i pacifisti venissero strumentalizzati?

Elisabetta Rubini – Capisco quello che dici. E tuttavia: non si possono accomunare nel ragionamento le guerre di aggressione – da chiunque perpetrate – e quelle indotte dalla necessità di resistere ad una invasione armata. È pensabile che gli Ucraini non reagissero all’invasione da parte dell’esercito russo? Le conseguenze sarebbero state inevitabilmente la legittimazione dello stato di fatto determinato da quella invasione nonché della perversa ideologia che la sostiene.

La seconda perplessità che la decisione di convocare la manifestazione pacifista del 5 novembre mi suscita è il grave rischio (si può dire la certezza) che questa iniziativa venga strumentalizzata da quegli esponenti e partiti politici che sono da sempre legati a doppio filo con Putin. Le recenti dichiarazioni di Berlusconi sono un chiaro messaggio di fedeltà di una parte dello schieramento politico italiano al dittatore russo, dichiarazioni la cui smentita non può certo convincere chi ha assistito negli anni al tipico dire e disdire del personaggio. E così la manifestazione pacifista, nata con le migliori intenzioni, rischia di dare argomenti a chi vuole prendere le distanze dall’appoggio che l’Europa ha dato e intende continuare a dare alla resistenza ucraina.

Sergio Labate – Il primo argomento con cui vorrei provare a risponderti è che questa piattaforma mi pare esprima un giudizio nitido e senza sconti sulla genealogia immediata della guerra. Perché non basta? Sono mesi che provo a dialogare sulla pace e sulla guerra e ogni volta devo premettere che la guerra di aggressione di Putin è uno degli atti più criminali avvenuto sulla scena del XXI secolo. Io, come la quasi totalità dei pacifisti, non ho alcuna indulgenza nei confronti dell’operazione militare di Putin. Qual è il nostro compito – dico come Associazione – in un tempo così dilaniato? Io credo sia soprattutto di evitare le semplificazioni, piuttosto che le strumentalizzazioni. Che tanto ci saranno sempre, dal momento che l’opinione pubblica è stata contagiata da questa logica di guerra che prevale ormai da ben prima della guerra. Ci accostiamo alla guerra come ci accostiamo al televoto. Lo ripeto: il nostro compito non è di evitare le strumentalizzazioni, ma di problematizzare le questioni, evitando semplificazioni che servono solo a legittimare posizioni ideologiche.

C’è poi un altro argomento, che ha a che fare col rovesciamento dell’obiezione che poni. Coloro che insistono per inviare le armi, per fare l’esempio più divisivo, perché non dovrebbero temere di essere strumentalizzati da coloro che stanno pervicacemente insistendo sul fatto che le armi siano la soluzione di tutto e che la diplomazia sia una scelta di cedevolezza nei confronti della Russia? O quella per cui si censura l’arte russa e si demonizza l’intero popolo russo? Non sono anche queste gravi strumentalizzazioni? Eppure io non dubito che tu non pensi né l’una cosa né faresti l’altra. Forse farebbe bene ad entrambi riconoscere un punto comune: la necessità di spostare il fuoco del dibattito dal tema dell’aiuto militare. Io personalmente non ho dubbi sul fatto che buona parte di coloro che ritengono sia necessario mandare le armi, siano altresì convinti che le armi, senza la diplomazia, siano del tutto vane. Più armi ci sono, senza uno sforzo concreto e persino unilaterale (ci tornerò) per la diplomazia, più la guerra sarà sanguinosa. Il nostro compito è di far vincere qualcuno o di mettere in sicurezza coloro che sono vittime della guerra? Più tempo passa, più l’evidenza che le armi servono a far continuare la guerra mi sembra plateale. Che le armi non sono una soluzione, se non sono almeno accompagnate da una consapevolezza altrettanto forte della necessità della diplomazia.

Del resto il nostro Presidente della Repubblica, pochi giorni fa, ha messo in guardia chiaramente da entrambi questi estremismi. Da un lato infatti ha ricordato che bisogna cercare «una pace che non ignori il diritto a difendersi e non distolga lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito» e, d’altro lato però ha anche ricordato che «non può esserci contrapposizione tra mezzi e fini se si vuole la pace. Non si può giungere alla pace esaltando la guerra e la volontà di potenza, perché la pace è integrale o non esiste». Credo – e sono certo che su questo siamo d’accordo – che il nostro compito comune, più che dividerci sull’invio delle armi, è seguire questo doppio suggerimento di Mattarella.

3. Quale pace si vuole raggiungere?

Elisabetta Rubini –  Questa è la questione fondamentale: il manifesto del 5 novembre auspica che i rappresentanti di Kiev e di Mosca siedano al tavolo delle trattative e che l’Europa e l’ONU spingano per una soluzione concordata. Ciò è del tutto condivisibile. Avrei tuttavia apprezzato una presa di posizione più esplicita sul fatto che la sola pace accettabile è quella che veda il ritiro immediato dell’esercito invasore da tutto il territorio ucraino e una libera possibilità di autodeterminazione dei popoli che vivono nelle regioni già oggetto dell’invasione del 2014.

Sergio Labate – Forse è questo il punto su cui siamo più in disaccordo. Permettimi di proporti due argomentazioni differenti. La prima è un po’ brutale, ma spero se ne capisca il senso. Non si può chiedere che vi sia un’opera di mediazione se chi media non assume un qualche ruolo di terzietà. Io credo nella necessità che vi siano dei soggetti che abbiano l’autorevolezza per essere credibili come mediatori e che per questo riescano ad aprire un tavolo diplomatico, con urgenza e senza alcuna precondizione (o meglio: le precondizioni per le trattative devono essere anch’esse la conseguenza di una mediazione). Gli ucraini hanno tutto il diritto di porre delle precondizioni, noi abbiamo il dovere di mettere in campo una trattativa che tenga conto anche (ma non solo) di quelle precondizioni. Altrimenti il rischio è che questo sia il modo migliore per chiudere ogni possibilità di diplomazia. Mi pare questa, oltretutto, la grave mancanza dell’Europa: preferisce confondersi con la posizione atlantista che, dal mio punto di vista, ha rinunciato a qualunque terzietà e non cerca in alcun modo una soluzione diplomatica. Anticipo la tua obiezione: ma noi non siamo equidistanti, c’è una vittima e un carnefice! E chi lo nega.

Ma la terzietà che ho richiamato non è uguale all’equidistanza. Il giudice, nell’assolvere il suo compito di fronte a un reo confesso, per esempio, sa già da subito chi sia la vittima e chi il carnefice e non credo non parteggi dall’uno o dall’altro. Ma questa sua partecipazione emotiva non può inficiare in alcun modo la sua terzietà, che è la condizione per cui le due parti in causa possono parlarsi. Ciò vuol dire rispettare una regola elementare della diplomazia – vale anche quando si deve sedare una rissa tra bimbi, in effetti: la pretesa legittima e addirittura necessaria di giustizia e di risarcimento della vittima deve passare attraverso la mediazione e la presenza di un terzo. Nella stessa occasione in cui Mattarella ha pronunciato quelle parole che ho citato prima, Macron ha detto che «una pace è possibile ed è solo quella che gli ucraini decideranno quando lo decideranno». Ecco, questa mi sembra un’affermazione quanto meno inopportuna. Perché difendere le vittime adesso ci impone di parlare col carnefice e renderci credibili come mediatori. E dunque il primo argomento che vorrei proporti è proprio questo: non tocca né a me né a te decidere quale sia la pace giusta. A noi tocca fare un passo indietro e riconoscere che perché la diplomazia abbia margine è necessario essere credibili come mediatori, senza per questo dover essere equidistanti. Il secondo argomento torna al punto iniziale. Io non credo che questa che per te è la questione fondamentale lo sia davvero. Per un motivo che ho già ricordato: chi vinca e come si vinca è la questione fondamentale se noi interpretiamo questa guerra rimuovendo il suo potenziale nucleare. Ciò vuol dire che lo status di potenza nucleare permette alla Russia di fare qualunque cosa, in spregio alle regole elementari del diritto internazionale? Ovviamente no.

Vuol dire semplicemente che la responsabilità che dobbiamo esercitare in questo caso ci impone un supplemento di attenzione circa le conseguenze delle scelte che si fanno – persino se queste scelte sono legittime o in buona fede. Questo supplemento di attenzione trasforma irreversibilmente la “logica della guerra e della pace” in tempo di minaccia nucleare (da qui, per me, l’impossibilità di paragonare la resistenza ucraina con la resistenza italiana). La differenza tra uno stato canaglia e una democrazia dovrebbe stare nella consapevolezza che le nostre reazioni non possono essere misurate tradizionalmente, ma devono essere misurate secondo la minaccia esponenziale del nucleare. Siamo di nuovo alla colpevole sottomissione dell’Europa alle posizioni atlantiste. Dal mio punto di vista la via diplomatica non è un’opzione, ma una necessità senza condizioni.

Se ci mettiamo d’accordo nel dire che quella minaccia è reale e non può essere ignorata, allora le cose cambiano. Ma lo scriveva meglio di me qualcuno che non può essere accusato di essere filoputiniano, cioè Albert Einstein: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a chiederci non quali passi possono essere fatti per dare la vittoria militare al gruppo che preferiamo, perché non ci sono più tali passi; la domanda che dobbiamo porci è: quali passi possono essere fatti per evitare una gara militare il cui esito deve essere disastroso per tutte le parti?». Ecco, per me questa è di gran lunga la questione fondamentale a cui rispondere.

Nata a Milano il 22 ottobre 1956, è sposata e ha due figli. Avvocato civilista, è iscritta a Libertà e Giustizia dal 2002, e nell’ambito dell’associazione si è occupata soprattutto di temi attinenti il funzionamento del servizio giustizia e la disciplina dell’informazione in Italia

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