La tela del Regno: chi inquina oggi è ancora la rete coloniale

12 Set 2022

Fabrizio Tonello

L’eredità negativa dell’Impero Per nutrire bocche e fabbriche, nell’800 la Gran Bretagna ha ristrutturato l’intero pianeta.

Che misura non soltanto la temperatura di oggi ma anche il peso schiacciante del passato sul presente. La storia della crisi climatica è inestricabile dalla storia della Gran Bretagna e del suo impero. Un impero guidato per 70 anni dalla saggia regina che ci ha lasciati ma sulla cui eredità ecologica occorre riflettere.

Ogni manuale scolastico ci dice che la Gran Bretagna è stata la prima ad attuare la transizione da fonti di energia organica a fonti di carbonio fossile, prima il carbone e poi il petrolio. Nel 1830, la Gran Bretagna aveva già emesso nell’atmosfera due miliardi di tonnellate di carbonio, più degli attuali totali di Bolivia, Uruguay, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Cambogia, Islanda, Haiti, Nicaragua e Ciad messi insieme. Questo ha favorito un processo di cui oggi vediamo le conseguenze su scala secolare: nell’Ottocento, la Gran Bretagna ha ristrutturato il pianeta per nutrire la propria popolazione, trasformando così l’ambiente per sempre. Oggi capiamo che il modo in cui il cibo viene coltivato e distribuito ha un costo ecologico devastante: è il momento di approfondire il ruolo centrale che la Gran Bretagna ha avuto in questa storia.

All’inizio dell’Ottocento la sua capacità di produrre cibo a sufficienza per una popolazione crescente cominciava a declinare, anche come risultato del lungo processo di trasformazione dei beni comuni agricoli in allevamenti di pecore per soddisfare la crescente domanda dell’industria tessile, le molto studiate enclosures.

La soluzione trovata fu quella di trovare produttori di cibo a basso costo ai quattro angoli del mondo, usando il proprio impero in espansione per superare i vincoli ecologici che da Londra a Manchester e da Liverpool a Glasgow frenavano la crescita della popolazione e dell’economia. La navigazione a vapore e le ferrovie permisero di trasformare vaste aree del mondo in monocolture per nutrire la crescente popolazione britannica.

La carne bovina svolge un ruolo centrale in questa storia, raccontata nei dettagli dal libro di Chris Otter Diet For a Large Planet. Tra il 1830 e il 1912 il consumo di carne pro capite in Gran Bretagna raddoppiò. Ciò fu possibile grazie all’uso milioni di chilometri quadrati del pianeta in pascoli per il bestiame e le razze bovine selezionate a Hereford e Aberdeen arrivarono a dominare il paesaggio dalle grandi praterie degli Stati Uniti alle pampas argentine.

Nuovo Messico e del River Plate. Nel 1930, Otter calcola che oltre il 90% delle esportazioni di carne argentina era destinato alla Gran Bretagna. Man mano che la carne diventava più abbondante e arrivava sotto forma di tagli standardizzati su navi refrigerate si trasformava in una commodity astratta, quotata al mercato dei futures di Chicago.

Un processo simile è avvenuto con il grano. L’abolizione della Corn Laws nel 1846 trasformò l’ecologia delle steppe russe, del Punjab, dell’Australia e del Kansas. Alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo, il 70% delle esportazioni di grano degli Stati Uniti era destinato alla Gran Bretagna. All’inizio del XX secolo i suoi 30 milioni di abitanti consumavano più del 40% di tutto il grano disponibile sul mercato mondiale.

Lo zucchero coltivato dagli schiavi nei Caraibi, è stato uno dei cibi più importanti per la Gran Bretagna tra il 1750 e il 1900, quando il consumo triplicò, fornendo una fonte di energia a basso costo per il the della classe operaia urbanizzata. Lo zucchero lega le forme estreme di violenza razziale praticate nelle colonie dall’impero della regina Vittoria (un’altra sovrana che regnò quasi sette decenni) e la rivoluzione industriale.

Gli ettari conquistati in quasi tutti i continenti per la produzione di cibo da mettere sulle tavole inglesi permisero l’affermarsi, secondo Otter, dell’’idea «termodinamicamente implausibile» che «la crescita potesse continuare senza conseguenze biogeochimiche» sul pianeta. Già 140 anni fa, gli inglesi mangiavano bistecche dell’Argentina, burro dalla Nuova Zelanda, zucchero dei Caraibi e pane dall’Ohio.

Lo straordinario sistema globale per la coltivazione, la standardizzazione, la movimentazione e la conservazione degli alimenti sviluppato dall’impero britannico su cui prima Vittoria e poi Elisabetta II hanno regnato è alla base delle reti alimentari che strutturano le nostre vite di oggi. Oggi sappiamo che la produzione alimentare moderna non è, ovviamente, l’unico motore della crisi climatica ma le sue conseguenze sono innegabili.

Il cibo è responsabile di quasi un quarto dei gas serra generati dall’uomo. La carne e i latticini da soli sono responsabili del 14,5%, che corrisponde all’incirca alle emissioni combinate di tutte le auto, i camion, gli aerei e le navi del mondo. I bovini, gli animali che sono stati il centro del complesso alimentare industriale prima britannico e poi mondiale, sono responsabili di un’impronta ecologica di gran lunga più profonda di quella di qualsiasi altro animale. Per capire fino in fondo il contributo storico dell’impero della Gran Bretagna alla crisi climatica, dobbiamo guardare al mattatoio quanto alla macchina a vapore, ai silos del grano quanto alle ferrovie.

Il manifesto, 10 settembte 2022

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