Un Pd macronizzato rischia di temere più la democrazia sociale di quella illiberale

13 Ago 2022

In questi giorni, osservando le mosse di Letta, mi è venuto in mente Prodi. Ma il Prodi di Corrado Guzzanti, quello che confessa di ispirarsi al “semaforo”: immobile mentre intorno corrono tutti. In effetti la sensazione che in troppi si sono agitati intorno al Pd a parte il Pd non è peregrina. Credo però possa essere utile partire dai fatti.

Un accordo tra il Pd e alcuni partiti di sinistra è stato raggiunto e, come una coperta troppo corta, sembra essere stato addirittura il pretesto per sciogliere il precedente matrimonio con Calenda(fortunatamente non c’è stato il tempo per consumarlo). Il fatto è che quest’alleanza con una parte della sinistra progressista sembra avere i crismi limitati di un accordo elettorale, tanto quanto quella con Calenda si presentava orgogliosamente come un accordo politico fondato sulla comune adesione all’agenda Draghi.

Ora, non credo si possa derubricare questo status differente dei due accordi a una (evidente, almeno per me) sopravvalutazione del peso elettorale di Calenda oppure al mito elettorale secondo cui si vince occhieggiando al centro. Non è Calenda il vero protagonista di questi ultimi giorni, è Draghi e la sua agenda. È su questo che il Pd deve chiarirsi le idee: chi vuole essere da vecchio (grande, è già abbastanza grande)?
Quel che è stato è piuttosto chiaro: nell’ultimo decennio è stato un partito di governo senza essere un partito di elezioni. Ha fatto il semaforo del sistema istituzionale italiano. Questa deriva governista ha avuto due momenti in cui il Pd non si è limitato a difendere il governo di cui faceva parte ma ha anche provato a riflettere su di sé.

Il primo momento è stato il trauma della segreteria Renzi. Che ha segnato con violenza la traiettoria politica di quel partito. Renzi ha provato a dire: noi non accettiamo politiche di centro-destra nostro malgrado, le accettiamo perché siamo così.

Il secondo momento è l’elaborazione collettiva che ne è seguita. Sia Zingaretti sia Letta si sono sempre dichiarati risoluti nel voler costruire un centro sinistra con i Cinque stelle. È legittimo modificare la propria identità politica complessiva per quel che è stato vissuto come un tradimento? Certamente. Ma il rischio che si corre è di perdere non tanto il valore aggiunto di un’alleanza, quanto la propria identità. Il rischio che si corre non è di restare soli, ma di non sapere più chi essere. Di scoprire di essere rimasti fermi, magari a difendere l’agenda Draghi o a sperare che, di nuovo, si possa tornare al governo senza passare per la strada maestra della vittoria delle elezioni.

Ecco perché non si tratta di capire con chi va il Pd ma chi voglia essere. La scelta, peraltro, sembrerebbe semplicissima. Anche solo per necessità. La destra radicale già spartisce ministeri, lo spazio di centro è saturo. E una parte del paese è completamente senza rappresentanza. Basterebbe riconoscere che questo spazio è il luogo della propria identificazione per riprendere quel cammino – piuttosto timido – intrapreso a seguito del trauma Renzi. Del resto se non trova un modo per rappresentare questo spazio, nei contenuti, nei nomi e nelle alleanze, la conseguenza inevitabile è consegnare il paese a un esperimento politico in grado di mutare geneticamente la nostra democrazia. Perché di fronte a tutte queste evidenze il Pd continua a stare fermo, come un semaforo? Qui le risposte si complicano e richiedono di avanzare un’ipotesi radicale e provocatoria. Ma che ha forse il pregio di connettere quanto sta accadendo a una tendenza europea, permettendo una contestualizzazione troppo spesso ignorata.

Come molti sanno, uno dei processi più rilevanti prodotti nell’ultima campagna elettorale francese è lo “spostamento della demonizzazione”. Dopo anni in cui il fronte repubblicano si era unito dinanzi alla minaccia Le Pen, per la prima volta Macronha effettuato uno spostamento: tra Le Pen e Mélenchon il pericolo maggiore per la democrazia è diventato il secondo. Buona parte (non tutta) della sua campagna elettorale è stata un gioco di sponda tra progressiva istituzionalizzazione della destra neofascista e delegittimazione della sinistra più radicale.

Temo che dietro le scelte di questi giorni vi sia proprio la tentazione del “momento Macron”. È anche grazie a Calenda se questo nodo è giunto al pettine. Il Pd vuole definitivamente essere un partito macronizzato? Se così fosse, tutto sommato si capisce perché la destra radicale non gli faccia così tanta paura da meritare uno straccio di accordo che renda le elezioni realmente contendibili. Sulle riforme costituzionali c’è un consenso di fondo: la destra si avvia a compiere definitivamente quella svolta presidenziale e maggioritaria che era nelle corde originarie del Partito Democratico. Sulle politiche economiche non vi è dubbio che vi siano ancora differenze. Ma in fondo buona parte del PD se dovesse scegliere chi gettare dalla torre tra flat tax e reddito di cittadinanza sacrificherebbe quest’ultimo e accetterebbe la prima.

Come si capisce, non sottovaluto affatto il travaglio di queste ore. Anzi, lo giudico riconoscendone un passaggio decisivo per il futuro di questo paese. Se Letta riproporrà la scelta di Macron – legittimare la destra radicale e ostracizzare la sinistra – assegnerà al suo partito a una logica ben precisa. Quella per cui non si tratta più di perseguire una democrazia degli uguali ma piuttosto una democrazia in cui le diseguaglianze vengono considerate “condizioni strutturali di giustizia”.

Per un partito macroniano si tratta in fondo di inserire meccanismi compassionevoli che però non compromettano l’effetto capitalistico che disegna la società secondo criteri di giustizia diseguale. È per questo che abbiamo di fatto sostituito nella discussione pubblica il paradigma della giustizia con quello del merito. Che cos’è giusto? Ciò che è meritato. Sfido chiunque si riconosca oggi nelle posizioni della destra radicale e del centro a dichiarare il proprio disaccordo con tale risposta.

Ecco, in una prospettiva storica di questo genere – prospettiva che investe l’intera figurazione delle democrazie europee – è del tutto comprensibile che la destra radicale possa esser vista come meno minacciosa della sinistra. Perché la sinistra europea – comprese alcune svolte socialdemocratiche che sono state evocate in modo del tutto strumentale in questi giorni – ha sempre ritenuto che il compito della democrazia fosse di correggere la tentazione capitalistica di sclerotizzare le diseguaglianze.

Si potrebbero fare altri esempi e anzi credo sarà necessario, dopo le elezioni di settembre. Ma intanto quest’ipotesi permette forse di spiegare meglio ciò che sta davvero accadendo e, forse, anche il travaglio di Letta. Quale delle due rappresenta una minaccia più grande: una democrazia che sfidi le diseguaglianze ripristinando il primato della politica oppure che una democrazia che si svuoti dei suoi equilibri e finisca per diventare illiberale?

Qualunque scelta faccia il Pd, il programma per il futuro è vasto ma necessario: la ricostruzione della sinistra deve partire precisamente dal rovesciamento della convinzione secondo cui una democrazia illiberale sia, alla fine dei conti, molto più tollerabile – e forse più attraente elettoralmente – di una democrazia sociale.

Domani, 9 agosto 2022

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