LA GUERRA VA RIPUDIATA ANCHE QUANDO È INDIRETTA

13 Lug 2022

Silvia Truzzi

Con Gustavo Zagrebelsky ripartiamo dall’articolo 11 della Carta. “Sotto un aspetto è datato; sotto un altro non lo è. Paradossalmente ciò che lo rende datato è anche ciò che lo rende attuale”.

Professore ce lo spieghi meglio.
Che cosa è la guerra di cui questo articolo della Costituzione parla?
Dagli atti dell’Assemblea Costituente risulta chiaro che si intendeva la guerra da cui si era appena usciti: la guerra in cui “si entrava” con una certa procedura disciplinata dal diritto interno e dal diritto internazionale. Occorreva la “deliberazione dello stato di guerra” con conseguente applicazione delle leggi di guerra, la coscrizione obbligatoria, il conferimento al governo dei “poteri necessari”, l’eventuale sospensione di alcuni diritti, la “dichiarazione” solennemente notificata al nemico. Quando la Costituzione parla di guerra anche in altri articoli (78 e 87 nono comma), usa la parola in questo significato, per così dire, classico. Già allora si fece tuttavia osservare che la guerra moderna è incompatibile con i tempi lunghi. Pearl Harbor dimostrava l’importanza della sorpresa dal punto di vista militare. Lo straordinario sviluppo della tecnologia bellica che culmina con i missili e la bomba atomica dà un vantaggio incolmabile a chi sferra a sorpresa il primo colpo. Insomma, se la guerra che la Costituzione “ripudia” fosse (soltanto) questa, l’art. 11 potrebbe essere annoverato tra le anticaglie vintage che spesso sopravvivono inutilmente nel diritto.

In che senso è attuale?
Nelle relazioni internazionali, oggi la forza si minaccia e si usa sempre di più evitando di pronunciare la parola “guerra”: polizia internazionale, missioni umanitarie o di peacekeeping, fino alla “operazione speciale” in corso in Ucraina. D’altra parte, nel diritto internazionale, il “flagello dell’umanità”, che dopo la II Guerra mondiale si volle condannare definitivamente, è qualificato diversamente e ampiamente come “violenza bellica” o, nelle parole dello statuto dell’Onu e di altre dichiarazioni della stessa fonte, come “minaccia o uso della forza”. Questo è il significato che deve darsi all’art. 11 della Costituzione per non privare di senso il libello di ripudio ch’ esso contiene. In questo senso è una norma attualissima. Del resto, l’interpretazione stretta della parola “guerra” significherebbe per assurdo che è vietata la guerra antica, ma sono ammesse quelle di oggi cambiando i nomi.

Sono cambiate anche le modalità di queste guerre.
Si possono fare e si fanno guerre per delega o procura, mandando aiuti materiali e finanziari, mezzi militari, soldati, mercenari, contractors, istruttori. Non si “dichiara” la guerra, ma la si “fa”. A me pare evidente che il “ripudio” imposto dalla Costituzione vale sia per le guerre dirette, che per quelle indirette. Il “neo-colonialismo” del nostro tempo usa questi mezzi. Ma, ciò che è vietato per le une è vietato anche per le altre. È chiaro, comunque, che concettualmente una cosa sono coloro che agiscono come longa manus di potenze straniere che non vogliono apparire in prima persona e sono da queste foraggiate per i propri interessi; un’altra cosa sono, per esempio, i movimenti di liberazione nazionale il cui fine non è opprimere, ma liberarsi dall’oppressione.

La Costituzione non vieta la guerra sempre e comunque, ma quando è “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”.
Questo punto è molto importante. La Costituzione non è “pacifista” in assoluto, nel senso evangelico del “porgere l’altra guancia” a chi ti ha offeso. La legittima difesa è, e non potrebbe non essere, ammessa. È piuttosto “pacifica” nel senso del “Discorso della Montagna”: “beati i pacifici”, cioè coloro che fanno pace, i “costruttori di pace”. Perciò è vietata la guerra offensiva, la guerra che “offende la libertà degli altri popoli”.
Nessuno mette in dubbio che ci si può, anzi ci si deve (“sacro dovere”, articolo 52 della Costituzione) difendere, ma non è vietato l’uso della forza quando si tratta non di offendere, ma di proteggere la libertà degli altri popoli.
L’articolo 11 vieta le “offese”, ma non dice nulla sulle “difese”. Badi bene: non si parla di libertà degli Stati, ma dei “popoli”. I popoli non sono solo i cittadini di uno Stato, non coincidono con lo Stato; sono collettività di persone di natura etnica, politica, culturale, religiosa, eccetera. Pensiamo ai numerosi casi persecuzione e sterminio politico o etnico (le famigerate “pulizie”). Ritorniamo al caso emblematico della Shoah. La questione non è di principio, ma è pratica: evitare che sotto il pretesto umanitario si nascondano ragioni di potenza.Non pacifista, ma pacifica.

La difesa, anche con le armi, è ammessa. Ma che cosa s’ intende per difesa? Pare un concetto chiaro solo a prima vista.
Anche a questo proposito, bisogna fare i conti con un mondo che non è più quello del quale ragionavano i nostri Padri costituenti. Si pensava ancora a un mondo di Stati che difendevano la propria sovranità innanzitutto sui propri confini. Oggi il mondo deve essere più realisticamente considerato come una grande scacchiera. I “pezzi” sono tanti, tra di loro esistono enormi differenze di peso e di possibilità (i pedoni sono tanti, da soli possono poco; il cavallo scalcia a destra e a manca; l’alfiere va trasversalmente; la torre va diritto o di qua o di là; la regina è mobile e va dove vuole secondo il suo estro; il re, apparentemente il più importante, è quasi solo la preda).
Questa è la globalizzazione politica. La mossa in un punto qualunque può essere una minaccia per tutti o per qualcuno indipendentemente dalla contiguità territoriale. I giocatori di scacchi lo sanno bene. La difesa del re si fa con strategie apparentemente lontane dal punto in cui egli si trova collocato.
Questo è realismo o, se si vuole, “geopolitica”: termine che, nel senso attuale, non ha più di cinquant’ anni. Chi ragiona seduto sui suoi confini e non guarda oltre perde la partita.

Quindi bisogna guardare lontano per pensare la pace?
Politica per la pace.
Sì. Lontano nello spazio e anche nel tempo. Il buon giocatore di scacchi non pensa alla prossima mossa ma a tutte le prossime mosse. In un certo senso, è un politico che fa scelte geopolitiche. L’articolo 11 impone di guardare lontano nello spazio e nel tempo quando ammette, in condizione di parità, le “limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e invita a “promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. È un grande programma, il programma del futuro. Certo, una volta che si sia aderito a qualcuna di queste organizzazioni, si deve essere conseguenti. Conseguenti, non vuol dire ubbidienti passivi.
Non basta dire, come si usa: “ce lo chiede” l’Onu, la Nato, l’Ue. Ma tu, che cosa ci stai a fare in queste organizzazioni, ci stai per ubbidire? Fai valere, per quanto è possibile, la parità che la Carta esige, secondo la tua visione della pace.

Vogliamo dire qualcosa anche sulla guerra che è in corso in Ucraina?
Sì, con la cautela di chi – a onta della valanga di notizie che ci si rovescia addosso – ne sa poco, al di là del fatto che c’è un esercito russo che fa guerra, morti a migliaia, distruzioni sul territorio ucraino e al di là dei “valori” che da una parte e dall’altra sventolano come bandiere. Questi sono gli unici dati. Il resto è sospetto di reciproca propaganda. Anche un poco di propaganda è inquinante di tutta la verità. Per non essere creduloni siamo perplessi.
Vorremmo saperne molto di più: quali cause ha questa guerra, come sono venute accumulandosi, chi ha fomentato le contrapposizioni, quali interessi al di là dei valori muovono le parti in guerra, chi sono i “potentissimi signori” di questo conflitto, chi se ne avvantaggia, quali sono gli intenti, che cosa pensano le vittime, e come vanno le operazioni sul terreno.

Non teme che in questo modo si finisca per trovare giustificazioni all’aggressore?
C’è una differenza che solo gli sciocchi non vedono: la differenza tra comprendere e giustificare. Si può “tutto comprendere” e “nulla giustificare”. Si deve comprendere per poter giudicare. Una volta che hai “compreso”, solo allora potrai assolvere o condannare.

Di fronte all’invasione che cosa c’è da comprendere?
Non si deve essere, comunque e incondizionatamente, dalla parte delle vittime innocenti?

Chi potrebbe dubitarne. Ma “stare dalla parte” può voler dire molte cose. La guerra, diretta o indiretta che sia, è l’ultima di queste cose. Innanzitutto, non è sempre moralmente lecita, anche se si sa chi è l’aggressore e chi l’aggredito. Ricordo la polemica, al tempo della prima Guerra del Golfo, tra Norberto Bobbio e alcuni suoi allievi, scandalizzati perché il loro maestro aveva detto che la guerra priva di prospettive di successo è immorale. L’avevano frainteso, come se avesse detto che la guerra vittoriosa è comunque “morale”. Bobbio diceva il contrario, cioè che una guerra combattuta senza prospettive – come quella dei Melii contro gli Ateniesi di cui parla Tucidide – è comunque immorale: morte, distruzione e disperazione senza senso. Chi potrebbe pensare il contrario? Se sai che la guerra è senza speranza ma la fai ugualmente, non sarà che vuoi la guerra per altri motivi?
Davvero in Ucraina si è convinti di sconfiggere la Russia e di poter costringerla alla resa?
Davvero si crede all’efficacia di strumenti come le sanzioni economiche che non hanno mai funzionato nei confronti di popoli abituati alle più disperate resistenze in nome di “guerre patriottiche”?

La Costituzione dice qualcosa che valga a proteggerci dagli abusi, noi che ne sappiamo poco o niente e siamo facili vittime della propaganda di guerra?
Sì. Innanzitutto ha voluto sottrarre le decisioni di guerra e pace alla solitudine dei governanti. In passato, la politica estera in generale era un “potere di prerogativa”, appannaggio del re e del suo governo. Era materia “riservata”. Per quanto invecchiata rispetto all’esigenza di decisioni rapide, è chiara l’impronta “garantista” della Costituzione. I poteri straordinari necessari in caso di guerra non sono del governo, ma del Parlamento che glieli “conferisce” (art. 78). Ciò significa pubblicità, trasparenza e responsabilità: responsabilità che, in ultima istanza, riguarda il popolo sovrano, i cittadini. Meno sappiamo, meno siamo sovrani.

Sotto questo aspetto, si dice, le cose sono formalmente a posto. Ci sono decreti convertiti in legge; “atti d’indirizzo” del Parlamento. Il presidente del Consiglio ha “riferito” alle Camere e le Camere hanno “preso atto”. Basta?
È stata prevista la partecipazione di personale militare ai dispositivi Nato e la cessione di mezzi e equipaggiamenti militari “non letali e di protezione”. Poi questa clausola è caduta a favore della cessione di “ulteriori mezzi”. Quali siano, è stabilito dal ministro della Difesa con documenti “classificati”, cioè secretati, elaborati dallo Stato maggiore della difesa. Il Parlamento, in un suo atto d’indirizzo aveva però previsto la necessità d’essere costantemente informato sulla “cessione degli apparati e strumenti militari” per poterne discutere.
Non si capisce perché non si possa sapere quali siano. Segreto militare? Una volta inviati e messi sul campo si saprebbe benissimo che cosa sono. Si vuol che si sappia solo a cose fatte? In altri Paesi che partecipano alla fornitura di armi all’Ucraina vige la pubblicità.
Sapere quali sono è essenziale per comprendere la natura della partecipazione italiana alla guerra in Ucraina. Che cosa si nasconde? La natura dell’industria bellica in Italia, forse?

Quindi, lei sostiene che l’informazione è insufficiente, alla luce del “garantismo” voluto dalla Costituzione?
Così mi pare. Aggiungo che la responsabilità non è solo del governo. Anzi, forse in misura maggiore è del Parlamento stesso che si accontenta troppo facilmente. Basta leggere le generiche formule, piene di buone intenzioni (tra cui la de-escalation della guerra, mentre si aumentano le armi che sparano sul campo) contenute negli “atti d’indirizzo”. Tutte le volte che il Parlamento si accontenta, scontenta i cittadini che in esso dovrebbero potersi rispecchiare.
(Fine)

 Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2022
www.ilfattoquotidiano.it

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