I SIGNORI DELLA GUERRA GIOCANO CON LE VITE ALTRUI

12 Lug 2022

Silvia Truzzi

Intervista a Gustavo Zagrebelsky 

In una lettera al Mahatma Gandhi, pochi mesi prima di morire, Lev Tolstoj scrive che c’è una contraddizione evidente tra il riconoscere il cristianesimo e e contemporaneamente la necessità degli eserciti di uccidere; alla fine o sarà abolita la religione cristiana, indispensabile per il mantenimento dello Stato, oppure l’esercito (e qualsiasi forma di violenza) che non è meno indispensabile allo Stato. “I governi sanno da dove arriva il pericolo principale e proteggono i loro interessi: si tratta di essere o non essere”. Con Gustavo Zagrebelsky proviamo ad affrontare qualcuno dei molti temi che il conflitto in Ucraina pone e che sono affogati in una discussione pubblica a volte infantile e spesso intollerante.

Professore, partiamo dall’interrogativo radicale del pacifismo tolstoiano – posto per esempio nei bellissimi Racconti di Sebastopoli, al cui assedio lo scrittore partecipò come ufficiale: perché si fanno le guerre?
Già, perché c’è la guerra? Eppure, a parte qualche matto come Hegel e Marinetti che l’hanno celebrata come il colmo della eticità o come “igiene del mondo”, tutti la considerano un terribile flagello. Perché l’umanità si fa da sé tanto male, spontaneamente, con le sue stesse mani?
Perché questo supremo masochismo? Uno spirito religioso risponderebbe che non è propriamente così perché nella guerra c’è qualcosa di metafisico che è entrato “nell’umano”, per qualche colpa originaria: un seme demoniaco contro il quale, infatti, si invoca, il “dona nobis pacem”.

Non resta che la preghiera o la psicanalisi?
Non guastano.
Ma c’è dell’altro: gli esseri umani ci mettono del loro scientemente. Su questo c’è molto da dire e da fare.

Per esempio?
Incominciamo con una distinzione, con una piccola pulizia concettuale. Si dice che “c’è la guerra”. Ricorda quel tragico canto di Sergio Endrigo che inizia con “dicono che domani ci sarà la guerra”? “Ci sarà” indica una fatalità di cui nessuno sembra portare la responsabilità.
Oppure, ci si chiede perché “si fanno” le guerre e anche in questo caso, con la formula impersonale, si nasconde qualcosa di essenziale, si manipolano le intelligenze ed evaporano le responsabilità.

Che cosa intende?
Le guerre non “si fanno”. Le guerre “si fanno fare”. È un’evidenza. Da una parte ci sono coloro che decidono, dall’altra coloro che eseguono. I primi fanno fare la guerra ai secondi. I capi di Stato, i ministri, gli alti comandi, i sobillatori, i fabbricanti di armi, i giornalisti (a parte gli inviati di guerra) e gli opinionisti al seguito, di solito non vanno sul campo, non sparano e non si fanno sparare, non distruggono case altrui e non si fanno distruggere le proprie. Le loro compagne, i loro bambini, i loro vecchi non sono uccisi, non sono buttati in strada tra le macerie. Quelli che fanno fare la guerra giocano con le vite altrui. Nella guerra, la distanza tra chi sta sopra nella gerarchia sociale e comanda e chi sta sotto ed esegue è abissale.

C’è una questione sociale nella guerra?
Esattamente. Stiamo parlando delle guerre decise da qualcuno che manda qualcun altro a combattere e a morire. Comandare e ubbidire. Si può essere sicuri che, se a decidere fossero gli inermi che devono combattere in guerre decise da altri, dai potenti, la guerra scomparirebbe dalla faccia della terra.
L’abisso tra la vita e la morte è diversamente percepito se si tratta di sé oppure degli altri.
Quando Napoleone doveva rimpiazzare i soldati nella campagna di Russia, tornava a Parigi e, senza batter ciglio, ordinava tra i contadini la leva di centomila nuovi soldati da mandare a loro volta a morire.
Lo stesso faceva Alessandro tra i servi della gleba. La carne umana non è tutta uguale e quella da cannone si trova preferibilmente nella parte bassa della stratificazione sociale.
Eppure la storia dice che la partenza per la guerra è quasi sempre organizzata come una festa, una grande festa nazionale…
Sì, è un’esaltazione dello spirito guerresco delle nazioni. Ma finisce presto. La retorica si sbriciola in presenza della realtà.

Per questo occorrono miti, ideologie, valori generali che confondono le menti e intimoriscono. Come si può essere insensibili all’amor di patria, per esempio? Ricorda l’antica menzogna dulce et decorum est pro patria mori con la quale Orazio, poeta di corte di Augusto, incitava i soldati a immolarsi con entusiasmo, per non passare per vili? Oppure, si fa appello a qualche magnifica e progressiva “vocazione storica”, data da bere a popoli inebetiti e creduloni per indurli a precipitare in guerre per la civiltà, il progresso, la giustizia, il bene della nazione. O si chiama in causa la volontà di Dio (il deus vult d’ogni crociata), o qualche cogente “ragione della storia” che si incarna in potenze auto-investite di “missioni” civilizzatrici universali. Oppure ancora si glorifica la virilità, lo sprezzo del pericolo, la bella morte (il “Viva la muerte” dei fascismi) e si dileggiano i miti che non ci credono. È un miscuglio di propaganda in mano ai potenti, al quale gli impotenti possono opporre canzoni (Dylan, De André) e poesie (Brecht, Ungaretti) per di più spesso censurate. La guerra è sempre violenza non solo verso chi è combattuto, ma anche verso chi combatte?
Con l’eccezione dei fanatici.
Dietro ogni guerra c’è una missione e ci sono i missionari. I soldati, per essere disposti a morire e a uccidere, devono essere imboniti, eccitati dalla propaganda, frastornati dall’uso di valori, frasi a effetto, ricatti morali in nome dell’eroismo e dell’amor di patria; oppure terrorizzati con i più orribili ritratti e caricature del nemico. Se poi questo non basta – dopo un po’ non basta a contatto con gli orrori: la guerra è bella solo a chi non l’ha provata, diceva Erasmo – allora ecco la gogna, la galera per i “disfattisti” e per gli obiettori (ricordiamo il processo del 1963 a don Milani), la fucilazione dei disertori sul campo o dopo processi sommari.
Questo è il “codice di guerra”, il codice dell’umanità rovesciata, della dittatura più spietata. Il pensiero si perde in un’orribile confusione di fantasmi, proiezione nelle menti della confusione dei campi di battaglia.
Pensi che anche la nostra Costituzione, così chiara nel “ripudiare” la guerra e nel vietare la pena di morte, fino alla modifica del 2007 lasciava alle “leggi militari di guerra” la possibilità di comminare la pena capitale.

Qualunque guerra è una festa dell’ipocrisia?
All’inizio lei ha citato Tolstoj, che era un idealista. Io mi limito a citare Federico II di Prussia, un onesto realista che disse: “Se i nostri soldati pensassero con la loro testa, si rifiuterebbero di andare in guerra”. Ecco il perché della mobilitazione, prima che degli eserciti, dei propagandisti e delle menti: per impedire di pensare o per far pensare storto.

Il pacifismo assoluto è un dovere morale?
No. Il pacifismo assoluto condanna l’uso della forza sia per aggredire che per resistere all’aggressione. Non è la stessa cosa. La pace è un bene cui tutti dichiarano devozione ma è, per così dire, un bene plurilaterale. È un rapporto tra più parti. Difendersi dall’aggressione, contrariamente alla prima impressione, fa bene alla pace, cioè impedisce a colui che l’ha violata di godere i frutti della violazione. Non difendersi, fa bene alla guerra e a chi l’ha iniziata. Potrà proseguire. Non è, dunque, solo una questione di legittima difesa, il vim vi repellere licet del diritto romano. Anche qui occorre una distinzione nell’uso della forza: una cosa se è per aggredire, un’altra se è per difendersi. Chi si difende combatte per la pace perché cerca di impedire il diffondersi della guerra. Questo, diciamo così, “in diritto”. In fatto può essere difficile discernere aggressori e aggrediti.

Lei dice “difendersi”. Può valere anche per “difendere”, cioè andare in soccorso di chi l’aggressione l’ha subita?
Ottima osservazione.
Capisco dove vuole portare il discorso. Ci arriveremo. Per ora restiamo a ragionare sulla differenza tra il verbo difendere nell’uso transitivo e in quello riflessivo. Lei mi chiede un esempio concreto: non è forse un’orribile macchia del nostro Occidente che non si siano bombardate le linee ferroviarie su cui correvano i treni per Auschwitz? Si sapeva, ma c’erano altre cose cui pensare prima, che interessavano di più. Capisco anche l’obiezione di chi dice: allora, per coerenza, occorrerebbe intervenire sempre e comunque con l’uso della forza tutte le volte che ci sono vittime innocenti da proteggere. Ma è un ragionamento per assurdo.

Perché “per assurdo”?
Si immagina un mondo in cui tutti si riconoscessero il dovere di portare la guerra, a giudizio di ciascuno, ovunque vi sia un’ingiustizia da combattere? Non sarebbe la guerra di tutti contro tutti? O, forse peggio, non sarebbe la legittimazione della dittatura di chi ha le armi più potenti? Altro che pace e giustizia per tutti: il regno del caos o della forza. Per questo c’è dell’ingenuità, o anche dell’ipocrisia, in chi dice: perché intervenite lì e non siete intervenuti là? In Ucraina (ecco dove il nostro discorso inevitabilmente finirà per arrivare) e non, per esempio, in Siria o nelle repubbliche africane sconvolte da terribili conflitti tribali?

Cosa risponderebbe se le girassi questa domanda?
Due cose. Primo: come ho già detto, l’applicazione generale e astratta di questo principio porterebbe al suicidio del mondo.
Ad evitare esiti catastrofici, fino a quando non si sarà instaurato il regno della “pace perpetua” e universale, o almeno la pace come regola e la guerra come eccezione, vale, prima facie come dicono i giuristi, il principio di “non ingerenza”. Brutta cosa di fronte alle ingiustizie, ma meno brutta dell’ingerenza illimitata per propri interessi negli affari degli altri. Secondo: poiché non ci può essere automatismo, è ovvio che chi interviene lo fa quando, al di là delle ragioni umanitarie, ha anche un interesse proprio. Può non piacere, ma è così. Interessi e ragioni umanitarie si mescolano inevitabilmente. Se viaggiassero gli uni indipendenti dalle altre sarebbero o pura prevaricazione o astratto umanitarismo. Naturalmente, si tratta di ingredienti di decisioni complesse che hanno due estremi: la morale umanitaria indipendente dall’interesse, inverosimile; l’interesse rivestito di umanitarismo, cinismo. Su tutto, dovrebbe valere come garanzia l’autorità delle Nazioni Unite.

Lei ha scritto su Repubblica che “i valori possono essere bellissimi ma, maneggiati dai potenti, spesso fanno paura”. Questa guerra è presentata da entrambe le parti come uno scontro in difesa dei valori: è così?
Per giustificare una cosa così terribile come la guerra occorre poter esibire ragioni fortissime, “valori” inconfutabili: valori non negoziabili. Infatti, quando c’è la guerra non ci sono trattative, tace la diplomazia.
Anzi, chi invoca trattative è a sua volta trattato come un traditore dei valori. Lo scontro tra valori che ciascuna parte indossa come corazza porta alla guerra assoluta. Questo è evidente quando le parti in guerra invocano lo stesso valore, ma ciascuna dalla sua parte. Questo valore è la sicurezza, cosa bellissima ma ambigua. Non c’è guerra, né politica militarista che non sia giustificata con l’argomento dell’autodifesa nei confronti dell’aggressore, in atto o in potenza. E quando uno invoca la propria sicurezza, l’altro è autorizzato a fare altrettanto. Per questo, per scatenare la guerra c’è bisogno di un casus belli, di una “provocazione” e, se non c’è, la si costruisce artatamente attraverso qualche “incidente”. Non c’è bisogno di portare esempi. Non è forse questa una dimostrazione palmare di cattiva coscienza? Paradossalmente la guerra – il massimo dell’insicurezza – la si fa invocando proprio la sicurezza. I valori esibiti in guerra si mescolano in un tutto putrescente dove vero e falso, realtà e inganno, onestà e raggiro s’ intrecciano. L’unica cosa da farsi per sottrarsi al gioco delle menzogne è la miscredenza. Che cosa orribile sta dicendo! È l’elogio dell’indifferenza, proprio di fronte alla tragedia. Non le viene in mente quella legge di Solone che condannava i cittadini che non avessero preso posizione, o di qua o di là, quando nella città spirava aria di guerra? Condannava gli “attendisti” in attesa di schierarsi col vincitore. Niente di ciò. L’unico valore comune e incontrovertibile è la vita e l’incolumità delle persone. Dovrebbe valere per tutti, allo stesso modo. Per tutti ma, evidentemente, i potenti che scatenano le guerre e le preparano per “farle fare” agli altri, mettendo in conto migliaia di morti e invalidi, e immani distruzioni che non li toccano personalmente, hanno altre priorità. La loro prima preoccupazione non è la vita, ma la potenza. Sono pronti – cosa di questi giorni – a sacrificare vite in cambio di armi (curdi contro basi militari), in più facendo furbescamente finta di niente (“chiedete chiarimenti ai governi turco e svedese”). La vita è un valore che scavalca i confini e le differenze sociali. Il ripudio della guerra di cui parla la Costituzione dovrebbe essere condivisione di tutti. Pacem in terris è l’enciclica di Giovanni XXIII, uno dei testi più lungimiranti del XX secolo. Ma ha nemici.Chi sono? Sono i “potentissimi signori” ai quali scriveva Bertrand Russell (allora Eisenhower e Kruscev) nel 1957 al tempo dell'”immane terrore” della bomba atomica, un tempo che sembrava superato e, invece, era solo dimenticato e ora si ripropone drammaticamente. Se c’è una speranza di pace è nella democrazia, cioè nel diritto degli impotenti, delle vittime designate, di sapere e di dire la loro. Se ci si accontenta di mettersi nelle mani di potentissimi signori, anche se scelti in forme più o meno democratiche, tutto può essere perduto. Le vite distrutte a migliaia o milioni e le immani distruzioni sono per loro “effetti collaterali” o effetti “purtroppo” necessari (Hiroshima ecc.).Mi stupisce che finora non abbia parlato dell’articolo 11 della Costituzione. Non sarebbe una guida sufficiente per districarsi in questi grovigli? È un lungo discorso…
(Continua in  “La guerra va ripudiata anche quando è indiretta”)
Il Fatto quotidiano, 8 luglio 2022

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