Putin, Biden, Johnson sembrano non sapere ciò che fanno 

15 Mag 2022

Fabrizio Tonello

Tutto sommato, se proprio dovessimo scegliere, preferiremmo la prima Guerra fredda (1945-1991) alla seconda (2022-?). Non che il conflitto tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, fosse stato una faccenda innocua (e, in realtà, nemmeno “fredda” come vedremo tra un attimo). Tutt’altro. Il problema è che i presidenti americani e i leader sovietici di allora erano uomini che avevano fatto la Seconda guerra mondiale e quindi sapevano cosa significa trovarsi sotto le bombe, bruciare in un carro armato o annegare nell’oceano.

Oggi, i principali attori del conflitto sono guidati da uomini che non hanno mai avuto esperienze belliche dirette: non ne hanno avute Joe Biden e di certo non Mario Draghi, che si sono incontrati la settimana scorsa a Washington. Quanto a Vladimir Putin, il fatto che fosse a suo tempo un agente di terza fila nei servizi segreti dell’URSS non può certo essere paragonato al ruolo di Nikita Krusciov, che nel 1942-43 era a Stalingrado, una battaglia in cui le perdite complessive di tedeschi e russi superarono i due milioni di soldati, tra morti e feriti. Tra i morti c’erano anche 85.000 italiani, sciaguratamente inviati da Mussolini laggiù. E’ questa palese ignoranza dei principali protagonisti che può avviarci rapidamente alla catastrofe. Ma facciamo un passo indietro.
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La prima Guerra fredda cominciò non nel 1946 con le dichiarazioni di Winston Churchill sulla “cortina di ferro” che divideva l’Europa o nel 1948 con il blocco di Berlino Ovest. No, il conflitto tra Stati Uniti e URSS iniziò il 6 agosto 1945 con il bombardamento atomico di Hiroshima seguito, tre giorni dopo, da quello su Nagasaki. Lo storico americano Gar Alperovitz aveva già dimostrato nel 1965 con il suo libro Atomic Diplomacy che il Giappone si sarebbe arreso comunque e che la distruzione delle due sfortunate città giapponesi era stata attuata per intimidire i russi esibendo il monopolio nucleare degli Stati Uniti.
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Su quello che accadde dopo sono state riempite intere biblioteche ma riassumiamolo lo stesso: la paranoia per lo spionaggio avversario tanto a Mosca quanto a Washington, la guerra di Corea (due milioni di morti anche lì), i colpi di stato anticomunisti in Iran, Indonesia, e troppi paesi latinoamericani per riuscire a citarli tutti qui. Più tardi, il Vietnam. Ma soffermiamoci un attimo sui tredici giorni nell’ottobre 1962 in cui il mondo fu davvero sull’orlo della catastrofe nucleare, a Cuba.
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A Cuba c’erano missili sovietici pronti al lancio, a Washington c’erano generali e diplomatici che premevano per un’invasione immediata dell’isola. Si è saputo solo molto tempo dopo che i militari russi sull’isola erano autorizzati a lanciare i missili contro gli Stati Uniti in caso di sbarco dei marines, senza richiedere ulteriori autorizzazioni a Mosca. Ne parla per esempio, lo storico di Harvard Serhii Plokhy nel suo libro dal titolo eloquente: Nuclear Folly: A History of the Cuban Missile Crisis. A Washington c’erano sostanzialmente due sole persone che si rendevano conto del pericolo di una catastrofe planetaria: il presidente John Kennedy e suo fratello Robert. Furono loro ad attivare un canale informale e segretissimo con Krusciov attraverso l’ambasciatore sovietico a Washington, Dobrynin. Un canale che permise la soluzione pacifica della crisi.
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Tutto questo c’entra con la situazione di oggi? Sì, perché palesemente gli attori del conflitto in Ucraina non si rendono conto di ciò che fanno. Non se ne rende conto Putin, che ha invaso un paese di cui riconosceva l’indipendenza e la sicurezza, fallendo clamorosamente nei suoi piani di guerra-lampo. Va anche ricordato che le testate nucleari sul territorio ucraino al momento dello scioglimento dell’URSS, nel 1991, furono cedute alla Russia con la mediazione americana in cambio di garanzie che si sono rivelate vuote di senso.
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Non se ne rendono conto Joe Biden e Boris Johnson, che hanno rivelato già da parecchi giorni che l’obiettivo della loro politica non è la difesa dell’Ucraina, ma la sconfitta della Russia, il che cambia completamente lo scenario bellico. Si può “sconfiggere” una potenza nucleare senza distruggerla? Si può provocare un colpo di stato al Cremlino quando l’80% della popolazione sostiene Putin? Si può mettere in conto una guerra pluriennale senza un costo mostruoso in distruzioni e vite umane in Ucraina? Senza contare una recessione accompagnata da inflazione (la borsa di Wall Street nei giorni scorsi è precipitata) e vere e proprie carestie in Medio Oriente e in Africa (Russia e Ucraina insieme erano i maggiori fornitori di cereali  di queste aree).
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A tutto questo va aggiunta la militarizzazione del dibattito pubblico in Italia e negli Stati Uniti, dove qualsiasi dubbio o esitazione nello schierarsi per più armi, più soldati, più retorica vengono immediatamente etichettati come “sostegno del nemico”, con relative censure, minacce e intimidazioni: apparentemente ai politici nostrani non è venuto in mente che chiedere ai servizi segreti a indagare sulle reti televisive che invitano ospiti sgraditi è ridicolo, prima ancora che illiberale e incostituzionale.
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Forse sarebbe il momento di cominciare a riflettere e a discutere seriamente.
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il manifesto,10 maggio 2022 

 

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