Per Paul

15 Mag 2022

“Molte sono le gioie della giovinezza, ma come è bello vivere/Quando ogni ora porta accesso tangibile/ Al sapere, quando tutto il sapere è diletto,/ E di dolore non v’è presenza”. (Wordsworth)

Paul Ginsborg ha attraversato il presente politico di questo paese – e dell’Europa – da protagonista e testimone. E ha osservato – come buona parte di noi – tanti “presenti” farsi storia. Il fatto che capiti a me di ricordarlo è in fondo un segno di questo attraversamento durevole e non fissato dentro un’epoca o un solo presente. L’impegno politico di Paul è stato anche nel segno di un “incontro di generazioni”. Non era un intellettuale che ripete stancamente la stessa diagnosi, che resta come immobilizzato dentro un presente eternizzato. Non ha mai dato l’impressione di voler fare della “sua ora” “l’ora di tutti”. Vedremo come ciò vale, a maggior ragione, per l’età che più di tutti – forse suo malgrado – ha finito per identificare il ruolo pubblico di Paul: il berlusconismo.

Ma non devo evidentemente fare una cronistoria del suo impegno politico, così complesso e così amplio. Piuttosto vorrei indicare alcuni tratti che hanno definito il suo stile e anche ciò che mi pareva essere davvero prezioso per la sua sensibilità politica. Alcuni tratti che hanno reso la presenza di Paul inconfondibile e insostituibile, nonostante egli non abbia mai fatto nulla per stare al centro della scena, per non essere sostituito (e già questa autoironia esercitata rispetto al proprio essere personaggio pubblico basterebbe a riconoscerne la statura differente rispetto a coloro che oggi non stanno sulla scena per parlare, ma parlano per stare sulla scena).

Paul è stato un vero e proprio intellettuale organico nell’epoca della secolarizzazione e della crisi dei partiti. Mi rendo conto di quanto contraddittoria sia quest’affermazione. Come si fa ad essere intellettuali organici se i partiti si dissolvono? E, ancor di più, come faceva Paul a essere intellettuale organico se è stato spesso accusato di aver privilegiato il ruolo della società civile contro quello dei partiti?

Eppure a me appare evidente quanto tutto l’impegno politico di Paul sia sempre stato teso e orientato dall’idea che la politica si faccia insieme. Che essa sia soprattutto costruzione di legami e di connessioni. La critica al narcisismo o al leaderismo come patologia delle relazioni politiche – una delle ultime sue lezioni – proviene in fondo proprio da qui. Era una critica strutturale e non semplicemente di stile. In tutte le sue esperienze politiche – sia quelle che ha letteralmente inventato (dal Laboratorio per la democrazia, alla grande stagione dei Girotondi, alla più recente avventura in Alba) sia quelle più storiche che si sono affidate alla sua saggezza (Libertà e Giustizia) – il punto fondamentale era la sua capacità di immaginarsi il proprio ruolo in mezzo agli altri. Chi è l’intellettuale organico, in fondo? Quello che mette la propria intelligenza al servizio di particolari “gruppi sociali” (avrebbe detto Gramsci). Ecco, in un’epoca in cui l’intellettuale sembra utilizzare la propria funzione per promuovere se stesso e per piegare alle proprie diagnosi gruppi sociali tramite la spettacolarizzazione e l’esibizione di sé, Paul ha rappresentato un contromodello: un intellettuale che ha sempre pensato alla propria funzione politica senza troppo riguardo per la propria visibilità. È stato davvero più un amico della verità che di se stesso (che grande lezione che ci hai lasciato, Paul).

Ha sempre utilizzato la propria intelligenza per connettere, le proprie parole per avvicinare con più verità possibile delle parti della società. Paul ha spesso rivendicato – con la consueta e inimitabile ironia – il suo ruolo di intellettuale pubblico. Ma, appunto, era un intellettuale pubblico ben differente dall’intellettuale personaggio pubblico che prevale oggi. Per fare solo un esempio: in tutti questi decenni non ha mai accettato nessuna richiesta di candidatura, nonostante in alcuni momenti fossero tante, pressanti e probabilmente vincenti. La sua risposta era sempre la stessa. Sorridente, mite e irrevocabile: “devo prima finire un ultimo libro”. Gli ultimi libri diventavano penultimi, ma la risposta non cambiava. Ecco perché era un vero e proprio intellettuale organico. Perché sentiva che l’impegno politico ha senso solo dentro un “noi”, più propriamente “con un noi”, e perché era consapevole e fedele al suo ruolo – non quello di governare ma quello di pensare.

La sua lezione da questo punto di vista è stata per me unica, più che rara. Ho conosciuto tanti intellettuali pubblici la cui passione di pensare ho scoperto essere subordinata alla passione per se stessi. Paul mi ha insegnato il gusto e il piacere del pensiero messo al servizio della politica, ma senza contaminazioni, senza compromessi, senza cadute di stile. Un pensiero che deve mettersi al servizio perché è naturale che lo sia, perché sennò rimane lettera morta, esperimento mentale, non diventa vita. Quel desiderio di connessione che ha orientato l’impegno politico di Paul proveniva precisamente dalla lucentezza del suo essere intellettuale: di chi sa che il pensiero, per essere tale, deve incarnarsi, deve illuminare l’oscurità della nostra vita comune (come nella caverna di Platone, in fondo: che altro è la politica fin da allora? E chi sono quelli che sanno la verità se non cittadini come gli altri, semplici abitanti della caverna?).

Perché lo rimpiangiamo così tanto, oggi? Forse perché ci rendiamo conto che le nostre scene sono occupate da intellettuali predatori, e che senza quella generosità politica di cui Paul era maestro non riusciamo più a connettere gruppi sociali, a mettere insieme comunità. La radicalità di Paul era così affascinante e così inglese, nella sua capacità di attraversare conflitti e disaccordi senza cadere nella paranoia della inimicizzazione (per fare solo un esempio, vi sono delle pagine che ha dedicato al tema della guerra il cui tono insieme assertivo e comprensivo appare così inattuale rispetto agli strepiti di questi giorni).

Tutto questo desiderio di mettere il pensiero al servizio delle connessioni è avvenuto, certamente, in un tempo che ha segnato prima il declino e poi il finale dei partiti e delle forme storiche deputate a rendere efficaci i nostri legami politici. C’è stato un periodo a cavallo del nuovo millennio in cui l’impegno politico di Paul era teso a cercare nei processi partecipativi della società civile – categoria in cui tutti noi scorgiamo facilmente la fiducia in quel ceto medio riflessivo a cui ha dedicato tante pagine geniali – una sorta di correttivo a quella crisi della democrazia rappresentativa che ho appena ricordato. Qualcuno ha cercato di interpretare questa passione per la democrazia partecipativa e per il ruolo politico della società civile come un riflesso postmodernista, un modo per cedere alla tentazione di non salvare nulla delle categorie del Novecento. Niente di più sbagliato, dal mio punto di vista.

C’era in Paul una consapevolezza lucida che proveniva dall’aver vissuto la demolizione delle forme democratiche da parte di Berlusconi. A rileggere a distanza di anni le pagine dedicate a questi temi, appare chiaro che per Paul Berlusconi non ha rappresentato un’eccezione, la cui scomparsa dalla vita pubblica avrebbe avuto come esito la normalizzazione da tutti auspicata. Berlusconi ha piuttosto contagiato la democrazia fino a farle fare un salto di qualità irreversibile, che richiedeva con urgenza una capacità non semplicemente di “rinnovare” la democrazia, ma di “rianimarla” (come scrive in quel gioiello che è il saggio La democrazia che non c’è, evocando il femminismo come la grande risorsa per salvare la democrazia). È la democrazia liberale ad essere ormai «un re nudo» – come scriverà in alcune pagine – non solo Berlusconi.

La tesi di Paul non era affatto che la democrazia partecipativa avesse il compito o la forza di sostituire questa democrazia dei partiti ormai irreversibilmente in crisi. Basterebbe rileggere queste poche righe tratte da Il tempo di cambiare (2004): «La società civile non può sostituirsi allo stato né prendere il posto di organizzazioni politiche più formali. Non può neppure sopravvivere o prosperare senza il sostegno delle istituzioni democratiche di ogni livello. D’altro canto la democrazia stessa è una vacca magra se priva della vitalità e della voce critica di quelle associazioni che si collocano tra la sfera privata e lo stato e che albergano ambizioni di arricchirla» (p. 200).

Piuttosto, la sua tesi rifletteva il suo amore profondo per la democrazia, anche nell’epoca della sua crisi. La democrazia non è un semplice regime di governo. La democrazia è – siamo di nuovo al punto da cui sono partito – una certa forma di vita comune. Per questo ricordava spesso la lezione di Bobbio: «credo che si debba parlare a buon diritto di una vera e propria svolta nello sviluppo delle istituzioni democratiche, che può essere sinteticamente riassunta con questa formula: dalla democratizzazione dello stato alla democratizzazione della società» (La democrazia che non c’è, p. 71). Ecco, se dovessi dire in una formula quale è stato l’obiettivo politico di Paul e la sua idea guida in tutti i suoi “presenti” che sono divenuti “storia” direi proprio questo. La lezione politica di Paul è aver compreso che alla crisi della democrazia rappresentativa si risponde attraverso quella sensibilità che è propria anche della nostra Costituzione che amava tanto. Se le istituzioni sono sempre meno democratiche, a noi non resta che democratizzare la società. È in questo senso che va intesa l’attenzione che ha prestato a temi come la vita quotidiana, la famiglia, le passioni. Qualcuno gli ha rimproverato di essersi allontanato dalla tradizione a cui apparteneva (e a cui farò riferimento tra un attimo). Di aver trascurato “le circostanze oggettive” della crisi della democrazia, a partire dalla crisi dei partiti.

A vedere ciò che accade oggi, non possiamo invece che dargli ragione. La crisi della democrazia è diventata una crisi antropologica. Mentre tutti gli chiedevano se partecipare o meno all’ultimo fallimentare progetto di partito politico di sinistra, Paul provava pacatamente a suggerirci: non siamo più in grado di costruire un partito perché non sappiamo più vivere insieme, non sappiamo più pensare insieme, non sappiamo più agire insieme. Perché abbiamo disprezzato i tempi e i luoghi delle connessioni e dei legami (a partire dalla famiglia e dalla sua ambiguità per finire con l’uso politico delle passioni) per concentrarci solo sulla questione del governo. Perché gli intellettuali predatori si mangiano ogni giorno di più gli intellettuali generosi, non lasciando più alcuno spazio. Questo divorzio tra “potere e vita quotidiana” è l’esito più disperante dell’età del berlusconismo e non solo.

E a chi può interessare in modo particolare questo divorzio se non a quelli cui è rimasta solo la vita quotidiana e che non hanno potere? La scelta di puntare sulla democratizzazione della società sia dal punto di vista dell’impegno intellettuale che dell’impegno politico è chiaramente una scelta di parte. La mitezza di Paul è sempre stata la forma del suo contenuto radicale e radicalmente di sinistra. Non era di sinistra perché si opponeva a Berlusconi, ma il contrario (la sua distanza via via sempre più netta dal progetto del PD si spiega anche così). Era contro Berlusconi perché scorgeva nell’attacco alla democrazia di quegli anni il dispositivo definitivo dello scollamento irreversibile tra coloro che esercitano il potere e coloro che subiscono le conseguenze del potere sulla loro vita quotidiana.

Tutta la sua testimonianza politica è pervasa da questo suo essere partigiano. Tra Mill e Marx, come nelle pagine meravigliose che aprono e chiudono La democrazia che non c’è. Nella consapevolezza che amare, difendere e “rianimare” la democrazia è il modo necessario per garantire giustizia sociale, laddove la democrazia non è più l’alleato storico del capitalismo ma ne è diventato il nemico da abbattere.

Che poi la verità è che Paul amava la politica perché amava un certo tipo di persone. Permettetemi di chiudere con una battuta personale. Mentre scrivevamo insieme il nostro libro, ogni tanto si fermava e col suo inconfondibile accento mi diceva: “Sergio… ma come è possibile che sono passato dallo scrivere un libro con Massimo d’Alema allo scrivere un libro con te?”. E poi ridevamo di cuore. Forse la risposta la so. Perché io sono una persona sgangherata, disordinata, imperfetta, di non particolare successo e tanto meno di potere. Col tuo accento di Cambridge e la tua storia pubblica così prestigiosa, ti piacevano le persone a cui rendere giustizia, non quelle che si sentono nel giusto.

Il tuo stile politico è sempre stato quello di un intellettuale che si prendeva sul serio, ma fino a un certo punto. Perché la serietà di un intellettuale non sta in se stesso ma nel suo sapere. E il tuo sapere era per te diletto, gioia luminosa che traspariva negli occhi e nelle risate che condividevi. Come nei versi di Wordsworth che amavi citare: «Molte sono le gioie della giovinezza, ma come è bello vivere/ Quando ogni ora porta accesso tangibile/ Al sapere, quando tutto il sapere è diletto,/ E di dolore non v’è presenza».

Tutto il tuo sapere era diletto, tutta la tua passione politica era gioia. Un modo per prendere sul serio il dolore e per impegnarsi affinché di quel dolore non vi fosse presenza. Deve essere stato bello vivere cosi. È stato bello per noi imparare da te a vivere così. È bello per noi credere che la politica possa avere ancora a che fare con questo sapere e con questo diletto.

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