De Monticelli, La pace va costruita nella mente degli uomini

15 Apr 2022

A colloquio con Roberta De Monticelli, filosofa e accademica, che spiega: “Bisogna rileggere i maestri di esattezza del sentire, come Todorov, Milosz, Camus, Grossman e il nostro Chiaromonte”

Da studente, la vorrei come professoressa. Da professore, come collega di pensiero. Da giornalista, la intervisterei, perché Roberta De Monticelli possiede lo spessore argomentativo per esprimere idee che originano dalla libertà necessaria per respirare, per studiare, per insegnare, per scrivere. Abbiamo già avuto modo di colloquiare a lungo, mai sulla guerra, evento che oggi s’impone e impone riflessioni non scontate.

Vedendo le immagini che giungono dall’Ucraina prova più meraviglia o desolazione?

“La seconda, naturalmente: ma anche sgomento per i limiti del pudore e del rispetto violati. Soprattutto quelli che ci sarebbero imposti dal rispetto per quei poveri morti, dalla pietà per loro. È vero, i media accolgono tutta questa violenza per denunciarla. Ma intanto probabilmente accrescono le vendite o le visite ai siti, e questo è un piccolo esempio di quella ‘mistura di bene e di male’ che, secondo un’intuizione di Simone Weil, di cui faccio troppo spesso uso, è ‘il vero male’. Ma ben altri esempi ce ne sono, oggi”.

Che cosa diventa un uomo quando uccide?

“Paolo Rumiz (Maschere per un massacro) narra gli incontri che fece con Drago, un capo miliziano delle famigerate ‘Tigri’ di Arkan, i massacratori di bosniaco-musulmani al sevizio di Milosevic al tempo della guerra serbo-bosniaca. Rumiz assistette da inviato a una criminale vendetta nei confronti di un uomo, il serbo Gojko Petrovic, che aveva ospitato in casa sua cinque bosniaci musulmani, per sottrarli al massacro. Drago aveva prima umiliato brutalmente l’uomo – un vecchio – per poi mitragliarlo. Tre anni dopo, per un incredibile caso, Rumiz rivide Drago in una boutique di via Montenapoleone a Milano. Cercava una pelliccia di castoro, si muoveva ‘con felpata sicurezza, come fosse lui il padrone’. Per un attimo i loro sguardi si incontrano. Rumiz non riesce a nascondere il suo turbamento: ma ‘gli occhi di falco’ dell’altro non tradiscono alcuna emozione. ‘Mi scossero’ – scrive Rumiz – ‘non perché evocavano un omicidio brutale, ma perché mi rivelavano che l’omicida non era identificabile da alcun segno, era capace di muoversi senza difficoltà in mezzo alla jeunesse dorée, agli operatori di borsa e agli avvocati della Milano bene. Quell’uomo non solo si mimetizzava nel ‘mio’ mondo, ma ne faceva parte’. La morale della favola la tragga ciascuno. Io penso che la questione urgente non sia cosa diventa un assassino, ma cosa diventiamo noi quando ci abituiamo all’orrore quotidiano, agli Afghanistan, alle Sirie, alle Bosnie, alle Ucraine che ci portiamo dentro, e a tutti i loro responsabili – come se non ci fossero, e fra noi o sopra di noi. Rischiamo una balcanizzazione della coscienza. O forse ci siamo già dentro in pieno”.

C’è modo e modo per accostarsi alla morte, per farne esperienza. Questo che modo è?

“Io mi chiedo se guardare queste immagini sia veramente fare esperienza della morte – sia pure di quella di altri, e di estranei. In primo luogo solo la mente sa che quel che vedi è vero: non lo sa il resto del corpo, i sensi, l’angoscia di condividere quegli spazi. Quello che vedi non è presente, è solo rappresentato – slegato da qualunque urgenza di agire, portare aiuto o conforto, o reagire. Slegato dall’azione e dal movimento: non puoi cambiare punto di vista, devi subire la decisione del videoperatore – come al cinema. La percezione è slegata dall’esercizio vivo di empatia: che può essere simpatetica o no, suscitare odio o pietà – ma per farlo deve approfondirsi, proseguire, diventare comunicazione: non c’è esperienza che di singole persone, genitivo oggettivo oltre che soggettivo. Occorre un morente, per fare esperienza della morte. Occorre una consuetudine che si spezza, per capire il senso del ‘non più’. Occorrono individui la cui unicità è soppressa, la cui irripetibile identità è perduta. Occorre aver visto fiorire, o peggio non fiorire una vita – quella, una volta sola nei millenni e nel mondo – per sentire il male infinito che fa chi la strappa. In queste scene dunque manca tutto quello che definisce l’esperienza: l’essere lì, incarnati, incorporati nell’ambiente, il nesso fra sentire e agire, l’esplorazione oltre il lato apparente, la cognizione del dolore, che vuole tempo, trasformazione interiore, mutamento. Che esperienza è quella da cui non si impara, che non ci cambia? E per l’esperienza della morte, poi – per l’esperienza morale, più in generale – manca l’essenziale: l’incontro con gli individui, con il loro mondo di colpo annientato, con la loro storia che non potrai portare in salvo, raccontandola. Non mi stupirebbe che anche questo profluvio di immagini contribuisse, come detto, alla balcanizzazione della nostra coscienza: che vuol dire angoscia cronica, a poco a poco neutralizzata dall’indifferenza”.

 

La malattia chiamata uomo, per dirla con Ferdinando Camon, a quanto pare non è ancora finita. Finirà mai?

“Prestissimo, se continuiamo con questa escalation mediatica, politica e militare che non lascia di fatto all’aggressore nessun’altra via d’uscita che annientare o essere annientato. Anna Politkovskaja descriveva – qualche anno prima di essere assassinata dall’oggetto del suo libro, Putin – lo stato di inefficienza, incuria, abbandono da corruzione e incompetenza dittatoriale, in cui versava la flotta nucleare in Kamčatka. Se dobbiamo stare allo spettacolo fornito dalle truppe russe in Ucraina, la situazione non è certo migliorata in questi due decenni. L’umanità – e quella europea prima di tutto – danza danze guerresche, pestando i piedi sulle mine atomiche”.

 

Anche il male, purtroppo, trova giustificazioni. Che cosa pensa di chi nega, di chi gira lo sguardo dall’altra parte?

“Intende, ovviamente, chi nega il torto di Putin o cerca giustificazione per questa aggressione. Può anche darsi che di questa gente ce ne sia molta, ma in Europa e negli Stati Uniti è subissata dalla quasi unanimità mediatica della (giusta) solidarietà con l’Ucraina aggredita. D’altra parte, a me il vero pericolo non sembrano i negazionisti, di cui certo non penso bene, se non altro perché preferiscono i loro teoremi al dolore di prendere atto della realtà. Il vero pericolo mi pare la violenza della reazione contro chi dissente, non dico sulla colpa e il colpevole (attuale), ma sulle misure che l’Unione europea e gli Stati europei possono o debbono prendere. O la violenza – la stessa, a volte – contro chi cerca non giustificazioni ma spiegazioni dell’aggressione in atto: anche se c’è una bella differenza. La violenza che sento sui media in questi giorni non è delle parole, ma dei modi in cui vengono dette. Spesso è gregaria: fa montare il sangue agli occhi e la furia alle mani di molti, tanto che sembra di vedere il bastone brandito sotto le parole mentre riduce in poltiglia l’onore di un poveretto. Magari di uno stralunato, ma del tutto innocuo professore: purché solo. ‘Non condivido affatto le sue idee’: ma non dovrebbe subito venirci in mente il resto della famosa frase di Voltaire (‘ma sarei disposto a morire per difendere la sua libertà di professarle?’). E che idea si fa di quella libertà che l’ex tenente colonnello del KGB vuole strangolare, in patria e fuori, chi non tollera a tal punto un’opinione diversa da coprirla di sarcasmo o ludibrio, e fosse pure, a farlo, un elzevirista solitamente affabile e garbato? E non è il pensiero, quello che colpisce. Il pensiero può accendere le parole come fossero lampade divine o tizzoni d’inferno, e non conosce diplomazie verbali: ‘si addice alla parola la temperatura del fuoco’ (Mario Luzi). No, quella violenza è molto più antica del pensiero, sa di capro e di espiazione, di fratria e di espunzione, è qualcosa di oscuro, di ancestrale. Ecco: come un residuo di socialità arcaica, che improvvisamente balena dietro il linguaggio umano, con la sua terribile pressione collettiva su una coscienza personale – che è sempre qualcosa di prezioso in sé stesso, e di fragile”.

 

C’è chi sostiene che con le armi non si pone fine alla guerra. Ma senza difendersi non c’è che arrendersi. O no?

“Ogni presa di posizione è certamente fallibile. Quello che veramente è falso è la tesi che dar ragione al popolo ucraino e alla sua resistenza implichi che ‘noi’ (in quanto distinti dagli USA, che non sono ‘noi’, e che dal 2014 armano e addestrano l’esercito ucraino) dobbiamo inviargli armi. Non lo implica. Ci possono essere buone ragioni per mandarle e buone ragioni per non mandarle. L’importante è specificare chi dovrebbe mandarle. Molti ad esempio – come Piero Ignazi, quello che argomenta meglio questa tesi – sostengono che aiutare gli ucraini a prolungare la resistenza e sia pure a costo di più vite umane, è anche aiutare i russi a liberarsi di Putin. In ogni caso posizione positiva e negativa sono discutibili, e certo io non pretendo di avere ragioni più convincenti di Piero Ignazi. In questo senso non mi ‘schiero’: prendo fallibilmente e meditatamente posizione. Quello che conta per la resistenza del resto non sono altre armi (quante ne stanno già ricevendo, ancora e ancora ogni giorno, gli ucraini) – ma la verità e la giustezza della causa: se mai mancassero queste, allora sì che la resistenza sarebbe perduta. Quello che ho sostenuto è che in ogni caso non dovrebbe mandarle l’Unione Europea, le armi, perché in questo modo si delegittima come potenziale negoziatore, e negoziatore intenzionato a non cedere sull’essenziale, a differenza della Turchia o della Cina: l’indipendenza politica dell’Ucraina e la sua appartenenza al concerto delle democrazie europee, e fin da subito se possibile all’Ue stessa. Ma soprattutto si delegittima, l’Unione Europea, nella sua identità ideale e istituzionale di casa pacifica delle più diverse nazioni, capace, in un futuro dopo-Putin, di accogliere anche ciò che dell’anima europea è inscindibilmente parte – l’anima russa, la più vasta fra le anime d’Europa, quella che meglio – scriveva Rilke – ‘confina con Dio’. E certo non sto parlando del piccolo uomo putiniano, il Pope omofobo. Consiglio di rileggere oggi un libro straordinario, gogoliano e puskiniano insieme, eppur profetico in una misura sorprendente, che fu scritto per salvare almeno la memoria di quell’esplosione di speranza e luce che fu l’epoca gorbaceviana, prima che il sogno, appunto, di una Russia democratica accolta nella casa europea, che era il suo, fosse strozzato fra le mani dell’istrione ebbro e rapace, El’cin, e del suo delfino Putin. Il libro è di Milli Martinelli: Russia ultimo inganno – Forse il diavolo ha acceso ancora le luci… La riedizione (Baldini Castoldi/Nave di Teseo 2018) si trova facilmente sul mercato, con una prefazione di Moni Ovadia”.

 

Ma lei ha compreso perché gli uomini fanno la guerra?

“Certo non per via dello ‘scontro di civiltà’ dei vari Hungtington e Brzezinski, che hanno molti sostenitori anche da noi, e proprio su questa insostenibile base affermano che se (come Europa) non mandiamo armi, siamo incoerenti. Forse perché sotto sotto siamo semplicemente filoputiniani. Oppure siamo pacifisti ‘assoluti’, posizione irragionevole e per alcuni immorale (menefreghismo da anime belle, iper-razionalismo, indifferenza, o positiva collusione con l’aggressore). Su questa linea si sono espressi Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Federico Rampini. Ma, maggiori e minori, sono tutti eredi della distinzione schmittiana fra amico e nemico come essenza della politica. La quale si rivelerebbe nella sua sospensione, la guerra, proprio come la sovranità si rivelerebbe nello stato di eccezione. Dietro c’è sempre quel mistero arcaico, per cui ogni differenza s’azzera, e i molti diventano un solo corpo che regge un solo capo, quando c’è questo ‘esistenzialmente ed essenzialmente altro’ cui opporsi – e allora non c’è mediazione che tenga, non c’è ‘norma prestabilita’. Se avessero ragione, la civiltà non sarebbe progredita oltre l’età del bronzo. Per questo il loro è un pensiero feroce e oscurantista: perché è questa colla di sangue, questa religio che ci stringe insieme contro l’Altro, e non il vincolo normativo cui consentiamo perché le molte identità convivano, che dà alla politica il suo compito. Invece è proprio questo insieme di vincoli normativi, che consente la convivenza dei molti e diversi: è questo, una civiltà. Oggi il residuo arcaico e non domato si chiama nazionalismo, certamente una delle cause della guerra. Ma io credo che la verità sia enunciata dal primo principio del Preambolo alla Costituzione dell’UNESCO: ‘Poiché le guerre cominciano nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che le difese della pace debbono essere costruite’”.

 

Dopo ciò a cui stiamo ri-assistendo, serve ancora rileggere Primo Levi o non più?

“Primo Levi, certo: e con lui tutti coloro che hanno analizzato in profondità quell’auto-destituzione del soggetto morale in noi che avviene nella zona grigia della coscienza, attraverso un graduale appiattimento dell’ideale sul reale, una graduale accettazione della mescolanza fra il bene e il male (quella che ho chiamato la balcanizzazione della coscienza). Che impedisce di fare quello che l’etica invece ci richiede: provare a dirimerli, non certo una volta per tutte e per sempre, ma qui ed ora, sempre di nuovo, nel dettaglio. Rileggere i maestri di esattezza del sentire. Tzvetan Todorov, Czeslaw Milosz, Albert Camus, Vasilij Grossman, il nostro Nicola Chiaromonte, di cui è stato di recente pubblicato un Meridiano Mondadori”.

E Husserl, che cosa può insegnarci oggi Husserl?

“Più o meno tutto quello che ho provato a dire. La differenza fra schierarsi – un fatto di identità e appartenenza, un’espressione di volontà – e prendere posizione (diverso da prendere partito): un fallibile giudizio per il quale però si crede di avere e si tenta di condividere evidenza, un’aspirazione a cercare prima di tutto ciò che è vero, un fatto di cognizione o ricerca che da appartenenze e identità prescinde: anche e soprattutto nel caso dei giudizi di valore! Ma poi: la fragilità e preziosità della coscienza personale, solo soggetto di libertà e ragione, che emerge da un sottofondo arcaico e tribale, identitario o consortile, ma ne è perennemente minacciata. E ancora, che il solo vero collante dei nazionalismi – anche di quelli imperiali – è ancora questo sottofondo arcaico e tribale, nonostante l’idea ottocentesca degli Stati-nazione vi radichi la sovranità democratica. E quindi la grande idea, la sola veramente innovativa nella teoria politica del Novecento, di separare la democrazia dalle sovranità nazionali, di costruirla sempre di più sulla base delle istituzioni sovranazionali ispirate all’universalismo dei diritti umani. Proprio come pensava anche Spinelli. Ecco. Per non parlare dell’esercizio di discernimento che ha per organo il sentire, per virtù, la sua esattezza, e che sottrae alla soggettività, peggio, alla collettività delle passioni, il giudizio di valore, facendone una dimensione della ricerca inesauribile di verità”.

Huffington Post, 9 aprile 2022

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