Il presidenzialismo da evitare

26 Dic 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

L’anno si chiude con la ripresa dei discorsi sulla Costituzione, in parallelo con le preoccupazioni circa lo stato di disgregazione della politica. Sono discorsi e preoccupazioni che rinviano gli uni alle altre e viceversa. Alla Costituzione si arriva a partire dalla politica per offrire rimedi a essa; e alla politica si arriva a partire dalla Costituzione alla quale si chiede di dare un ordine a questa. La politica è debole – si dice e allora si crede di ovviare con una Costituzione forte. Viceversa, la Costituzione è debole e allora si crede di rinforzarla con una politica forte. Tutto ciò, dovrebbe avvenire “di fatto”.

Punto primo, riguardante la tradizione dello “Stato di diritto”. Ai discorsi al riguardo non si dovrebbe partecipare con leggerezza. Toccano il presente e possono pregiudicare il futuro. “Di fatto” vuol dire “non di diritto”; ciò significa fuori o contro il diritto. Chi parla di mutamenti costituzionali di fatto dichiara implicitamente di avere in mente forzature incostituzionali. Le forzature, come dice la parola, sono prodotti di azioni che sottomettono il diritto ai disegni di chi dispone della forza. Nello “Stato di diritto” il diritto dovrebbe stare sopra la forza, non il contrario.

Punto secondo, riguardante la formula Costituzione “di fatto”. La si indica con parole come presidenzialismo o semi-presidenzialismo. Le realizzazioni pratiche di questi sistemi di governo sono varie e dipendono non solo dalle formule costituzionali, ma anche da molti fattori, politici, sociali e culturali. C’è il presidenzialismo nord-americano e sud-americano. C’è il semi-presidenzialismo francese e africano, degli Stati postcoloniali. Non bastano le formule astratte. Bisogna procedere dalla realtà, considerare le trasformazioni costituzionali rispetto alle tradizioni di ogni popolo, che sono spesso un dato duro da scalfire, e prendere in considerazione le conseguenze.

Se c’è una cosa che non dovrebbe essere dimenticata da politici e costituzionalisti è che le costituzioni sono come abiti posti su corpi viventi. Se l’abito non è confezionato con le giuste misure, il corpo prevarrà sull’abito e lo deformerà; oppure, l’abito pretenderà di cambiare il corpo cercando di ridurlo alle sue dimensioni. Fuor di metafora, nel primo caso le trasformazioni saranno solo apparenti, cioè inutili; nel secondo, saranno innaturali e dovranno essere imposte con la forza. Le vere e non pericolose trasformazioni costituzionali sono quelle in cui sostanza e forma si accordano senza farsi la guerra.

Punto terzo, riguardante il contenuto della “Costituzione di fatto”. Già ora, e ciò in parte è vero, il Presidente della Repubblica si è appropriato impropriamente di compiti e poteri di governo. Si è usata l’immagine del mantice della fisarmonica: può estendersi a volontà e secondo necessità se gli altri poteri non lo trattengono. I poteri del Presidente, sulla carta, sono in effetti numerosi. Per molto tempo, però, sono stati esercitati nel rispetto dell’autonomia politica del governo sostenuto dalla maggioranza parlamentare.

Infatti, nel sistema parlamentare, il Presidente è un garante della Costituzione e l’interprete dell’unità nazionale, non un soggetto governante. La funzione di governo lo trasformerebbe inevitabilmente in organo di parte, alterando l’equilibrio voluto dalla Costituzione. Ciò che più conta, nel contesto attuale, determinerebbe un concentrato di potere piuttosto mostruoso. Il Parlamento eleggerebbe il Presidente della Repubblica; il Presidente della Repubblica nominerebbe un Presidente del Consiglio a lui gradito, una sua protesi; se il Parlamento non seguisse e non votasse la fiducia, il Presidente della Repubblica potrebbe minacciare o mettere in azione il potere di scioglimento delle Camere. Il timore dei membri del Parlamento di fronte a questa prospettiva, metterebbe non solo il governo, ma anche il Parlamento nelle mani del Presidente.

Punto quarto, riguardante il presente e il futuro. Quando si parla di costituzione, si deve pensare non all’immediato, ma al tempo lungo. Le costituzioni sono fatte per durare. Ora, è ben possibile che, in condizioni d’emergenza politica, economica e sanitaria quali si ritiene che esistano oggi, sia opportuno che le forze politiche, sociali e culturali, constatando le proprie difficoltà o la propria incapacità, consentano provvisoriamente uno spostamento di potere volontario là dove meglio può esercitarsi, in mancanza d’altro. Ma, ciò sempre sotto il controllo di coloro che ne sono i titolari.

Ma da qui, a parlare di “Costituzione di fatto” è un salto nell’ignoto. L’opinione pubblica è tratta in inganno quando si parla di presidenzialismo o di semipresidenzialismo e si fa credere che la Costituzione di fatto possa dare ai cittadini il potere di eleggere il proprio Presidente della Repubblica con voto diretto, come accade per l’appunto in quei sistemi di governo. Nulla di tutto ciò secondo la nostra “Costituzione di fatto”. Si creerebbe un centro potere di durata addirittura settennale (salva rielezione), autoreferenziale o, meglio referenziale rispetto alle forze che ne hanno promosso l’elezione, senza nemmeno la dialettica che è possibile quando – come nei veri sistemi che si richiamano a qualche forma di presidenzialismo – il Parlamento e il Presidente traggono entrambi un’autonoma legittimazione democratica attraverso il voto popolare e possono quindi bilanciarsi reciprocamente.

Il presidenzialismo che si affermi per slittamenti di puro fatto, come se fosse indifferente governare da Palazzo Chigi o dal Quirinale, è piuttosto un mostro che un modello. Chi lo propugna richieda, allora, una ridefinizione del quadro costituzionale con quanto occorre in termini di equilibri istituzionali e garanzie costituzionali.

Punto quinto, circa gli orientamenti dell’opinione pubblica. I sondaggi paiono dire che una larga maggioranza dei cittadini è orientata favorevolmente verso il o, meglio, un presidenzialismo. O più semplicemente, verso l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Non è una novità ed è comprensibile, anche a fronte dello spettacolo al quale prevedibilmente assisteremo nelle prossime settimane.

Tuttavia, compito di coloro che operano responsabilmente sul terreno politico-costituzionale dovrebbe essere di distinguere, all’interno della massa dei favorevoli, coloro che invocano l’elezione diretta perché appartengono a quella vena autoritaria e anti-parlamentare che esiste da sempre nel nostro Paese; coloro che la vogliono per punire le degenerazioni e la rissosità del parlamentarismo dei suoi attori; coloro che semplicemente, quando si chiede loro se vogliono un potere in più e uno strumento di azione politica diretta, dicono “perché no?”.

Non tutti costoro sarebbero d’accordo tra di loro. A quella che si chiama “classe dirigente” spetta la responsabilità di distinguere le pulsioni autoritarie e populiste, le giuste richieste di rigenerazione ai partiti e alle forze politiche in vista della fiducia dei cittadini e la comprensibile domanda di maggiore partecipazione politica. A queste richieste non c’è una risposta unica. Anzi, le risposte sono diverse. La confusione di istanze così lontane tra loro, in nome del generico presidenzialismo, sarebbe qualcosa di cui si rischia di pagare in futuro un conto salato.

La Repubblica, 24 dicembre 2021

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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