Come qualcuno forse ricorderà, qualche settimana fa l’economista Francesco Giavazzi, ora consigliere del Presidente del Consiglio Draghi, dichiarò pubblicamente che il debito è un concetto del secolo scorso e che è la qualità a misurare e giustificare la spesa pubblica. Quando lessi questa dichiarazione, come tutti, fui portato a stupirmi per l’evidente contraddizione rispetto alle teorie dell’austerità espansiva che per decenni egli stesso ci ha propinato sui principali giornali italiani.
Dopo le decisioni contenute nella manovra finanziaria contro le quali si rivolge lo sciopero generale del 16 dicembre, capisco che non c’era in quelle parole un passo indietro rispetto al passato, ma un progetto di futuro.
L’ho capito quando Draghi ha etichettato questa manovra come espansiva. Chi può dargli torto? Per la prima volta abbiamo dei soldi da spendere e non semplicemente dei tagli da fare (certo, bisognerebbe ricordare che tutto ciò è possibile non grazie a Draghi ma nonostante Draghi, che per anni ha difeso con durezza il dogma secondo cui la crescita può essere solo un effetto dell’austerità).
Ma la politica non finisce una volta riconosciuta l’espansività della manovra. Piuttosto comincia. Dove vanno questi soldi? A chi vengono distribuiti? Per supportare quale idea di società? Insomma di quella dichiarazione estemporanea di Giavazzi, era proprio l’idea di “qualità” a dover preoccupare davvero. E che genere di qualità sia l’obiettivo di questa manovra mi pare tanto chiaro quanto passato colpevolmente sotto silenzio.
Già solo per questo val la pena sostenere lo sciopero generale del 16 dicembre. Se per esempio riteniamo che il vero problema sociale dell’Italia contemporanea siano le diseguaglianze (non certo il green pass), allora una manovra espansiva – ma anche un tenue aumento del Pil, che è indice da dismettere come ormai sappiamo da decenni – può avere due effetti possibili: può contribuire a ridurle o può addirittura accentuarle.
Gli stessi effetti possono esserci per una riforma fiscale. Per fare un esempio semplice: abbassare di molto le tasse ai pochi e abbassarle di pochissimo ai molti non è una riforma equa, anche se si vorrebbe convincerci che tutti possono essere contenti, visto che a tutti vengono abbassate. La diseguaglianza si combatte con l’equità, che è da sempre proporzione.
Basta leggere i dati della prossima riforma per capire bene quale sia la qualità scelta dal Governo. Del resto, dovremmo ricordarci che una riforma fiscale ha una ricaduta complessiva e a lungo termine sulla distribuzione della ricchezza. È una riforma il cui oggetto non è tanto quanti soldi si sottraggono, ma quanti soldi rimangono. Come scrive Claudio Napoleoni, «il possesso della ricchezza garantisce realmente prestigio, potere e libertà, così come, simmetricamente, l’assenza di ricchezza determina privazione, dipendenza e mancanza di libertà».
In tempi in cui si fanno battaglie oscure per difendere la libertà, forse basterebbe ripartire da questa tesi molto classica. Una riforma fiscale serve a riconfigurare il potere e la libertà. Superare l’austerità non basta a garantire coloro che dall’austerità sono stati segnati in questi anni. Questo sciopero generale ha così dei significati che dobbiamo tenere bene a mente. Ci permette di ricordare che la pandemia non ha sospeso le ingiustizie sociali, ma le ha accentuate.
Non c’è nessuna lesa maestà, né irresponsabilità nel voler riportare la politica al centro delle piazze, per discutere della complessità delle vite individuali, che sono fatte di vaccini e anche di pane per mangiare e di bollette da pagare. In fondo su un punto le due parti in conflitto sul green pass sembrano convergere: occupare accanitamente la scena pubblica distogliendo lo sguardo da politiche che delineano una società sempre più diseguale. Chiunque voglia ricordarlo viene escluso dal dibattito pubblico.
Superare l’austerità non basta a garantire coloro che dall’austerità sono stati segnati in questi anni. Tornare a occuparcene, in tempi di pandemia, non è tempo sprecato, ma fatica necessaria.
*Presidente di Libertà e Giustizia
Mi pare che l’importanza data dal Prof .Labate al decreto fiscale Draghi sia eccessiva, dato che prevede ritocchi minimi sul profilo delle aliquote dell’Irpef.
Che l’affermazione di Labate che “abbassare di molto le tasse ai pochi e abbassarle di pochissimo ai molti non è una riforma equa, anche se si vorrebbe convincerci che tutti possono essere contenti, visto che a tutti vengono abbassate. La diseguaglianza si combatte con l’equità, che è da sempre proporzione” sia molto chiara, non direi, perché qui si tratta di progressività, non di proporzionalità. Bisognorebbe sapere cosa i ritocchi di Draghi fanno alla progressività. Ma anche se la riducessero, sarebbero inezie rispetto alle circostanze fondamentali che 1) l’Irpef è largamente sfacciatamente evasa da tutti i gruppi che non sono lavoratori dipendenti e 2) nell’Irpef non rientrano svariati tipi di redditi, ciascuno dei quali soggetto ad una mite flat tax. In realtà l’Irpef non è quello che dice di essere e tormentarsi per i ritocchi di Draghi patetico. Né 1) e 2) sono gli unici due problemi che una seria riforma fiscale dovrebbe affrontare. Ad esempio, su richiesta dell’Europa il governo ha provveduto o sta provvedendo a un aggiornamento del catasto, ma ha rinviato di anni l’utilizzo fiscale dei nuovi dati. L’Europa ci invita a spostare il peso della tassazione dal lavoro alla ricchezza, in particolare alle prime case. Resta aperto il problema di ripristinare la tassazione successoria, quasi azzerata con tripudio di ricchi e poveri come una dei primi atti del primo governo Berlusconi.
Infine, sarebbe il caso di partecipare ad uno sciopero generale dato che Draghi non vuole (perché politicamente non può) darci una VERA riforma fiscale? Si potrebbero organizzare delle manifestazioni (si ricordi però che gli evasori fiscali sono il primo partito in Italia) senza fare ricorso alla forma dello sciopero, che sarebbe totalmente sradicata dal suo alveo proprio.