L’Italia del futuro e Machiavelli 

22 Ott 2021

Principi e popolo – L’autore, con l’immaginazione, interpreta sovrani e traccia una redenzione del Paese. Riscoprire la virtù civile del passato, per riconquistare la libertà e vincere la corruzione, “il vizio che ora regna”

“Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa”. Queste parole, tratte dal quindicesimo capitolo del Principe, sono state citate molte volte per sostenere che Machiavelli è stato uno dei grandi teorici del realismo politico, nemico dei visionari che immaginano società future.
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La verità è che ricorreva all’immaginazione sia per interpretare le intenzioni dei principi, sia per disegnare visioni di emancipazione. Su come Machiavelli usava l’immaginazione i migliori studiosi hanno scritto pagine molto belle, ormai ingiallite dal tempo, che merita rileggere. Federico Chabod osservava che “la ‘immaginazione’ del Machiavelli” consisteva nel “trasformare l’evento determinato, concreto, in un semplice spunto iniziale per salir su, in alto, con la fantasia creatrice, e scorgere in quell’evento un momento particolare, una espressione singola di qualcosa che non è particolare, bensì eterno – l’agire politico”. Mario Martelli ha invece sostenuto che “nel Machiavelli non sussiste una perennemente fresca attitudine a considerare le cose, la realtà, la vita, ricavandone regole sempre nuove e, fino al momento della loro formulazione, non prevedibili (il che avrebbe comportato, se non altro, la necessità di rivedere continuamente il sistema, conciliando il nuovo con il vecchio, o quello sostituendo a questo), ma un non modificabile organismo di formule che può aspettare, al massimo, una conferma della realtà, e che comunque, ove questa conferma manchi, non per questo può essere messo in discussione dagli avvenimenti”. 
 
È vero che Machiavelli interpretava la realtà alla luce di modelli che traeva dalla storia, soprattutto dalla storia di Roma, e immaginava realtà future guidato dalle sue speranze. Lo aveva capito bene Francesco Guicciardini, l’indiscusso maestro di realismo politico, che considerava Niccolò uomo di raro ingegno e spirito, troppo sollecito tuttavia a generalizzare concetti e a interpretare la realtà politica sulla base di modelli tratti dalle storie antiche. (…)
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Quando vuol capire perché un principe o un popolo hanno agito in un determinato modo, o come agiranno nell’immediato futuro, Machiavelli non si affida soltanto alle sue teorie sui principi o sui popoli, ma esamina con occhio attento la particolare natura, ovvero le passioni e le convinzioni, di questo o quel principe, di questo o quel popolo. Francesco Vettori gli scriveva, il 12 luglio 1513, che “noi habbiamo a pensare, che ciascuno di questi nostri principi habbia un fine, et perché a noi è impossibile sapere il segreto loro, bisogna lo stimiamo dalle parole, dalle dimostrazioni, et qualche parte ne immaginiamo”. Il 26 agosto spiega a sua volta a Vettori che per capire se la pace durerà o vi sarà nuova guerra bisogna considerare i fini particolari dei principi e soprattutto i loro particolari caratteri: 

Et quanto allo stato delle cose del mondo io ne traggo questa conclusione: che noi siamo governati da così fatti principi, che hanno, o per natura o per accidente, queste qualità: noi habbiamo un papa savio, et per questo grave et rispettivo; uno imperadore instabile et vario; un re di Francia sdegnoso et pauroso; un re di Spagna taccagno et avaro; un re di Inghilterra ricco, feroce et cupido di gloria; e Svizzeri, bestiali, vittoriosi et insolenti; noi altri di Italia poveri, ambitiosi et vili; gli altri re, io non li conosco. 

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All’immaginazione Machiavelli si affida non solo per interpretare le intenzioni dei sovrani, ma anche per disegnare una futura redenzione dell’Italia. E lo fa proprio nel Principe, l’opera che studiosi e lettori hanno per secoli considerato il manifesto del moderno realismo politico. Nel capitolo VI esalta i grandi fondatori di Stati e i redentori di popoli: 

Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli; perché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore e fare come gli arcieri prudenti a’ quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con lo aiuto di sì alta mira, pervenire al disegno loro.

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Gli esempi che addita sono uomini che “per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili”. E fra questi il gradino sommo spetta a Mosè, il profeta armato che trovò “il populo d’Isdrael, in Egitto, stiavo e oppresso dagli Egizii” e con l’aiuto di Dio lo condusse alla Terra promessa. Con immaginazione da profeta e da poeta paragona la condizione dell’Italia a quella degli antichi popoli divisi e oppressi e invoca un redentore (). Come ha notato bene Antonio Gramsci, Machiavelli crea il mito del redentore in grado di guidare il suo popolo in un cammino di liberazione simile a quello dell’Esodo (). Per chiudere il Principe prende a prestito da Petrarca le parole della profezia della redenzione dell’Italia: “Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto”. 

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Più che descrivere i dettagli della società futura, compito che lascia agli utopisti del suo tempo e dei tempi a venire, vuole insegnare agli italiani ad amare la virtù che regnava nella Roma repubblicana e a detestare “il vizio che ora regna”, come scrive nel Proemio al II libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Dei suoi tempi biasima l'”estrema miseria, infamia e vituperio”, il disprezzo della religione, delle leggi, della disciplina militare; dei tempi antichi, romani, loda i modi seguiti “nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare è sudditi, nello accrescere l’imperio”. (,,,) 

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Nell’Arte della guerra, la sua ultima grande opera politica, ripropone ancora una volta i princìpi del tempo nuovo: “Onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, constringere i cittadini ad amare l’uno l’altro, a vivere sanza sètte, a stimare meno il privato che il publico, e altre simili cose che facilmente si potrebbono con questi tempi accompagnare”. 

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Riteneva che “in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre”. Se in passato gli italiani avevano dimostrato virtù civile, potevano dunque riscoprirla e con essa riconquistare la libertà e vincere la corruzione. Confortava questa sua visione del futuro, la convinzione che il tratto distintivo dello spirito degli italiani fosse la forza di rinascere. “Questa provincia”, scrive ancora nell’Arte della guerra, “pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura”.

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*Il testo di Viroli è tratto dal volume collettaneo “Il futuro. Storia di un’idea” di AA,VV. edito Laterza.

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22 ottobre 2021

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