Per Via D’Amelio condanne certe, ma non tutto è chiarito

15 Ott 2021

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo di Salvatore Madonia e di Vittorio Tutino per la strage di via Mariano d’Amelio, in cui perirono il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, e quella per calunnia nei confronti di Francesco Andriotta e di Calogero Pulci, attribuendo definitività alla pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di Vincenzo Scarantino (due calunnie).

Si tratta di un punto d’arrivo del travagliato iter processuale, articolatosi attraverso quattro dibattimenti e un grave depistaggio, iniziato subito dopo la strage, lucidamente attuato con la creazione di prove false, che hanno portato alla condanna di sette innocenti, poi assolti a seguito di giudizio di revisione.

A seguito del fondamentale ausilio di più collaboratori di giustizia partecipi all’eccidio, sono stati comminati decine di ergastoli, con plurimi verdetti della Corte di Cassazione, è certa la paternità mafiosa dell’attentato, il coinvolgimento nell’ideazione e deliberazione dei componenti degli organi di vertice di cosa nostra (la commissione provinciale di Palermo e la commissione regionale) e nell’esecuzione di uomini d’onore appartenenti alle famiglie mafiose di San Lorenzo, di Porta Nuova, di Brancaccio, di Corso dei Mille e della Noce.

Sono state individuate le ragioni dell’eccidio: la vendetta nei confronti di un acerrimo nemico di cosa nostra; preventive, in relazione alla possibilità che Borsellino divenisse capo della Procura Antimafia (ricevendo il testimone del giudice Falcone nel contrasto al crimine organizzato) e derivanti dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che hanno comportato un’accelerazione dell’esecuzione e il congelamento di altro attentato.

La destabilizzazione terroristico-eversiva è insita nella modalità della consumazione e nell’inserimento nel più ampio progetto criminale aperto attuato nel triennio 1992-94. La pronuncia della Corte deve, però, rappresentare un punto di partenza per proseguire nella ricerca della verità che non è ancora completa, nonostante gli importanti risultati raggiunti.

Permangono, infatti, zone d’ombra e interrogativi rimasti senza risposta. Gli stessi riposano nelle ragioni dell’accelerazione della strage – eseguita a distanza di 57 giorni nella medesima città, a Palermo (o, comunque, nelle immediate vicinanze) della strage di Capaci – nelle finalità del depistaggio preparato dalla collaborazione di Francesco Andriotta (un ergastolano mai coinvolto in indagini di mafia), iniziata il 14 settembre 1993, attuato da Vincenzo Scarantino, non appartenente a cosa nostra, nel giugno del 1994 e, in seguito, da Salvatore Candura (ai quali si è aggiunto poi Calogero Pulci), con la partecipazione verosimile e inquietante di esponenti delle istituzioni.

Occorre verificare se vi sia stata una finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato.

È, poi, necessario identificare la persona indicata da Gaspare Spatuzza come presente al momento della consegna della Fiat 126 nel garages di via Villasevaglios, non conosciuta dal collaboratore.

Non si conosce: la provenienza dell’esplosivo utilizzato per imbottire la 126 e chi azionò il telecomando che fece esplodere l’autobomba il 19 luglio 1992. Su tale ultimo aspetto l’esecutore materiale Fabio Tranchina ha riferito un’indicazione preziosa: Giuseppe Graviano gli aveva chiesto di procurargli un appartamento nelle vicinanze di via d’Amelio, per poi dirgli che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d’Amelio per azionare il telecomando che provocò l’esplosione. Non sappiamo se ciò accadde poi effettivamente.

Non sono state chiarite le modalità della sparizione dell’agenda rossa del magistrato, custodita nella sua borsa, passata di mano in mano, che certamente non fu opera di cosa nostra.

È rimasto enigmatico il contenuto dell’intercettazione del dialogo di Mario Santo Di Matteo con la moglie sugli infiltrati in via D’Amelio.

Vi è poi il dato, suscettibile di approfondimento per verificarne l’impatto sulla tempistica di esecuzione della strage, per cui i vertici di cosa nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa con uomini dello stato, senza alcuna delega da parte dei magistrati titolari delle indagini sulle stragi, che, nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali.

Per tali ragioni, sebbene siano trascorsi quasi trent’anni, si impone di continuare a indagare, con determinazione vigilando sul rischio concreto di nuovi depistaggi.

Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2021

 

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

 

 

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