Fare chiarezza sul conflitto fra liberali e illiberali

02 Ott 2021

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Nell’interessante dibattito sul liberalismo politico aperto dall’Economist, con un articolo apparso online il 4 settembre 2021, ripreso da Domani  in queste settimane, tre articoli su quattro (finora) rigettano le tesi principali del servizio originario. Questo inizia con una premessa in apparenza ovvia, ma che evidentemente non lo è: “il cuore del liberalismo classico è nella convinzione che il progresso umano sia realizzabile attraverso la discussione e le riforme”.

L’articolo parte dall’oggi, e dalla questione di come – a fronte di sconvolgimenti globali – le democrazie liberali possano sopravvivere e riassume in tre punti la lezione classica attraverso un impegno a sostenere la dignità individuale, i mercati aperti e la limitazione dei poteri governativi, e questo non localmente, ma universalmente.

Secondo l’Economist, esiste un pericolo opposto e speculare a quello della destra populista illiberale: la «sinistra illiberale». In buona parte gli obiettivi di questa sinistra (società più giuste) sono gli stessi del liberalismo politico: ma non i metodi (cancel culture, no-platforming, conformismo linguistico attivo e impositivo. Si veda in rete, a questo proposito, la sconcertante lettera di dimissioni di Paul Boghossian dall’Università di Portland).

E neppure le premesse che legittimano questi metodi: quattro, con molta esattezza, ne individua l’Economist. Sono la tesi della falsa coscienza (il potere delle elite che si maschera coi bei discorsi); e poi il privilegiare la forza dell’azione sulla fiducia nel gioco democratico, la bontà dei fini sulla discutibilità dei mezzi e – punto che riassume gli ultimi due – gli interessi del gruppo identitario (minoranze ecc.) sulla libertà dell’individuo.

Così definita, la sinistra “illiberale” è per definizione tale pur restando “sinistra”: ma non ne segue evidentemente che il liberalismo politico è “di destra”. Tre dei commentatori su quattro intendono invece l’articolo come un’ingiusta delegittimazione di una ideologia “di sinistra”, in quanto tale, da parte di una “di destra”.

Giorgia Serughetti (Gli equivoci nel concetto di “sinistra illiberale”, Domani 6 settembre) ignora semplicemente l’elenco (dei caratteri specificamente illiberali): le pare ovvio che “i liberali classici” debbano e vogliano distinguersi da “gli attori della sinistra”, e identifica la posizione dell’Economist con “la teoria degli opposti estremisti, che equipara le battaglie per la giustizia sociale a quelle della destra populista autoritaria”.

Raffaele Alberto Ventura (Le promesse che la civiltà liberale non ha mantenuto, Domani 9 settembre) rincara la dose: “altro che illiberale, quella della sinistra è una battaglia per la giustizia sociale”. E saranno anche bei principi quelli liberali, ma intanto non sono che “un patrimonio di tecnologie sociali che hanno contribuito all’uscita dei popoli europei dall’antico regime, con le sue ingiustizie e le sue violenze” (sottinteso: e non un’etica, né una filosofia politica); e poi “la civiltà liberale ha finito per impiccarsi alle sue promesse”, senza mantenerle. Che però non sarebbe, di nuovo, un’obiezione all’Economist, il quale per ipotesi condividerebbe il punto – se condivide, come dice, l’opzione progressista.

Infine Ferraresi (La “sinistra illiberale” che non piace all’Economist è figlia del liberalismo, Domani, 9 settembre), dopo aver ricordato che “liberal” vuol dire progressista in America, opposto ai conservatori, aggiunge però che i conservatori sono “liberali in senso europeo”: e ne approfitta di passaggio per contestare “la fuorviante distinzione fra liberalismo e liberismo” di Einaudi.

Questo però non vuol dire che si può essere di sinistra anche sostenendo la libera concorrenza, ma al contrario – l’idea è sempre quella – che infine questi liberal si dicono progressisti, ma sono conservatori. E se poi se la prendono con gli illiberali, non fanno altro che prendersela “con le contraddizioni che erano già implicite nelle premesse del discorso liberale”: insomma, era abusivo, per i liberal, credersi quelli di sinistra!

E con un colpo di prestigio sorprendente, ne deduce che le proteste identitarie sono figlie dello stesso liberalismo, anzi della sua accezione più larga, profonda e antica, più fondamentale della versione politica illuminista: che sarebbe l’idea della sovranità morale ed esistenziale degli individui. Appunto: cosa c’entra con il comunitarismo identitario? Misteri della dialettica.

Al punto che si ricomincia un po’ a respirare solo con Marco Almagisti (Come regolare i conflitti sociali? La sfida per la “sinistra illiberale”, Domani, 11 settembre), che preferisce affidarsi a Giovanni Sartori (Democrazia. Cosa è, Rizzoli, 1993), per il quale il liberalismo “è soprattutto una teoria e una prassi della libertà dagli abusi, della protezione giuridica e dello stato costituzionale. Pertanto una condizione fondamentale della democrazia moderna, giacché essa può concretamente instaurarsi e consolidarsi solo in presenza dell’affermazione del costituzionalismo liberale”.

Ecco: qui manca il mercato, ma gli altri due tratti essenziali del liberalismo classico ci sono e non si può negare che la chiarezza del discorso ne guadagni assai. Finalmente, allora, segue anche la conseguenza: niente è effettivamente più illiberale che la soppressione del dissenso. Il problema è semmai che non diventi guerresco conflitto. Come diceva l’Economist.

*L’articolo si riferisce al dibattito su liberalismo classico e illiberalismo, sviluppatosi in seguito all’articolo dell’Economist del 4 settembre, intitolato The threat from the illiberal left. Don’t underestimate the danger of left-leaning identity politics.

Domani, 16 settembre 2021

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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