Dalla pandemia al nome di tutte le cose. Appunti programmatici

1. Una storia

Vorrei cominciare con un breve racconto, che poi altro non è che la storia di come io sia giunto fin qui, a questo mio espormi piuttosto sorprendente, per voi ma anche per me. E forse è anche tutt’altro: è la storia di una generazione che ha vissuto da spettatrice un’epoca e adesso ha da assumersi delle responsabilità che coincidono però anche con un senso di smarrimento.

Ho conosciuto LeG per ciò che l’Associazione ha rappresentato per quasi vent’anni: l’argine culturalmente più riconoscibile a una traiettoria politica che andava rompendo la forma consolidata della democrazia e, in questa rottura incessante, ha finito per trasformarla – nella sostanza, nella percezione e nelle aspettative. Con uno sguardo ormai capace di porsi alla giusta distanza, potremmo infatti riconoscere che il nostro impegno è servito a scongiurare il peggio, ma non è bastato a evitare che l’esperienza della democrazia – il carico di speranze e di attese che in essa riponiamo – sia diventata un’altra cosa rispetto a ciò che rappresentava prima.

Quell’impegno tanto ammirevole quanto difficile aveva due caratteristiche sulle quali ritornerò, perché mi sembra siano ancora il cuore di ciò che LeG ha da dare e da dire. La prima è una specie di mite radicalità, rappresentata alla perfezione dai suoi “giganti”. Come potremmo aggiornare questa mite radicalità? Io penso descrivendola come un impegno a un pensiero davvero e fino in fondo (e anche quando questo fondo è piuttosto scomodo, a dirla tutta) partigiano. La seconda è invece una straordinaria capacità di intuire ciò che abbiamo finito per comprendere solo dopo, solo adesso: che la crisi politica della democrazia non era la conseguenza accidentale di un eccentrico episodio (per esempio l’abnorme discesa in campo di un tycoon), ma piuttosto che quell’eccentrico episodio s’inseriva in un attacco sistematico alla democrazia non solo come struttura di regole ma come idea comune di società. Un attacco diretto all’istituzione della società, più precisamente a quell’immaginazione comune della società che è stata istituzionalizzata nella Costituzione.

Ci torneremo, come detto, ma prima torno alla mia storia. LeG è stata per decenni questo argine fascinoso e nobilissimo: dentro cui ritrovare uno stuolo di maestri non solo della cultura ma anche della vita civile e, al contempo, un ceto medio riflessivo desideroso di prendersi cura della democrazia e consapevole che essa – la democrazia intendo – sia cosa fragile e preziosa che può solo salvarsi da sé: non ha altro livello di legittimazione se non quello della resistenza civile e permanente. La democrazia è un impegno degli uomini democratici affinché essa non si spenga. Nessuna legittimazione verticale, nessuna grazia a preservarla. Solo l’impegno.

Ecco, prendiamo due concetti presenti in questa frase che ho appena scritto, per capire dove stiamo adesso e perché LeG è tanto più necessaria quanto appare inattuale.

I maestri. I loro scritti e la loro testimonianza è il motivo per cui siamo ancora qui (e permettetemi – non potendo ricordarli tutti – di fare un solo nome, quello di Paul Ginsborg. Che è il vero motivo per cui oggi sono qui e sto facendo tutto questo). Ma tra loro e noi – certamente tra loro e me – c’è una cesura e una distanza che non è responsabilità mia. Loro sono dei giganti e io un nano: ma non è solo per i miei limiti soggettivi (che pure non nego). È soprattutto perché in venti anni il lavoro intellettuale si è modificato grandemente. Con delle conseguenze politiche sulle quali converrebbe riflettere – e molti per fortuna lo hanno già fatto.

La prima conseguenza è che l’ambiente in cui il lavoro intellettuale si svolge (penso all’Università ma anche alla Scuola) è stato trasformato in modo da farlo diventare del tutto insalubre. Dalla mia generazione in poi abbiamo fatto quest’amara esperienza: che chi svolge un lavoro intellettuale sembra quasi non debba più fare l’intellettuale, cioè esercitare il pensiero critico. La condizione preliminare che permette di sopravvivere dentro i luoghi della cultura sembra ormai essere questa acquiescenza “senza pensieri” nei confronti del potere. Nel tempo celebrato come “la fine delle ideologie”, non c’è cultura istituzionalizzata che non sia legittimazione del reale, brutale ideologia.

È così che, mentre osservavo con ammirazione i maestri, facevo esperienza di quanto la “dismissione degli intellettuali” fosse una delle condizioni del progetto di contraffazione della democrazia cui stiamo assistendo.

La seconda conseguenza è appunto un anti-intellettualismo diffuso, che non a caso attraversa unanimemente tutte le parti politiche.  E questo è un problema non da poco. Perché non si tratta di difendere i monologhi narcisisti degli intellettuali (mai come in questo periodo imbarazzanti) ma di continuare a credere a quella nozione gramsciana di cultura, secondo cui la democrazia si costruisce attraverso la capacità di estendere e non restringere gli spazi della comprensione e dell’approfondimento. La cultura è il modo in cui la classe dirigente si legittima come tale e non si limita a restare classe dominante. E dunque la trasformazione della cultura in comunicazione ideologica è un dato sostanziale della crisi delle nostre classi dirigenti.

Non c’è democrazia compiuta e non c’è politica senza cultura politica. Intendiamoci: sostenere questa tesi in un tempo come il nostro è una vera scommessa e ha a che vedere con il senso stesso di LeG. Certo che l’associazione deve “stare al passo coi tempi”, ma deve farlo scommettendo sul fatto che la strategia di trasformare la politica in un gioco comunicativo svuotandone la consistenza culturale sia di per sé destinata a fallire (per conto mio il populismo è stato – e sarà, non appena lo shock pandemico tenderà a normalizzarsi – niente di meno che la messa in evidenza del fallimento di questa strategia). Soprattutto perché stanno arrivando tempi in cui la sottomissione delle nostre vite nei confronti delle scelte politiche sarà così possente e soffocante che tutti sentiranno l’esigenza di sapere ciò che sta succedendo e che nessuno sembra più voler dire. In termini un po’ più colti, la scommessa che vorrei rilanciare è che il supposto elitismo azionista – cui LeG si rifà – si concilia oggi con il primato gramsciano della cultura. Che vuol dire questo per LeG, concretamente? Tante cose. La prima è che c’è un modo di fare cultura politica che passa attraverso le nuove forme di comunicazione ma che non riduce la verità alla comunicazione. Non possiamo restare novecenteschi, ignorare i social o semplicemente usarli come contenitori per contenuti che restano uguali a se stessi. Né possiamo tacere sulla necessità che LeG torni in qualche modo – grazie all’impegno di tutti coloro che ne hanno la possibilità – a occupare spazi pubblici in grado di far sentire la propria voce. Ma c’è un modo di stare nelle cose che permette di attraversarle per quello che sono, senza esagerarne i contorni. Contrariamente a quel che ormai abbiamo quasi interiorizzato, sono persuaso che i social non producono delle nuove realtà. Le nuove tecnologie non producono delle nuove ontologie. Sono semplicemente dei media, dei mezzi. Il reale della democrazia sono i corpi e i vissuti delle persone, specie di questi tempi.

Come è un mezzo altrettanto importante la capacità di dare entusiasmo ai circoli – che in questo tempo di pandemia sono stati miracolosamente le nostre ancore di salvezza e che io non posso che ringraziare sinceramente per ciò che hanno fatto e per ciò che faranno. Perché LeG è una comunità di persone che sente una responsabilità per la cosa pubblica, non è un partito che si giudica dai voti che prende. È una comunità di persone che si riconosce in un compito – non semplicemente difendere, salvare, mettere al riparo, ma far rinascere la democrazia costituzionale, avendo fede nei suoi ideali – e che ha fiducia in un metodo: quello per cui la democrazia si sostanzia non nella servitù volontaria, ma nell’insieme di esseri umani che vengono resi liberi discutendo tra loro e garantendosi reciprocamente questo diritto allo scambio di parole ragionevoli.

Ceto medio riflessivo. Non è questa la sede per un’analisi sociologica, ovviamente. Basterà dire però che quella fiducia nel ceto medio riflessivo deve fare i conti con la sua progressiva scomparsa. Lo spazio sociale del ceto medio riflessivo si è eroso sempre di più. Non solo per la “proletarizzazione” o per la “marginalizzazione” del lavoro intellettuale. Ma anche perché, come ho già accennato, quel lavoro intellettuale non è stato semplicemente svalutato fuori di sé, ma è stato anche trasformato in sé. A chi ci rivolgiamo, adesso? Adesso che gli studenti universitari – per giunta in un paese in cui il numero di giovani che s’iscrive all’Università è tra i più bassi d’Europa – hanno letto Fabio Volo ma non hanno mai sentito nominare Tolstoj? LeG nasce in un mondo che si stava trasformando, ora resiste in un mondo che si è già trasformato.

C’è un passaggio nello Statuto che mi ha colpito, rileggendolo per l’occasione. Laddove si fa riferimento al compito del “perseguimento di finalità culturali, sociali, educative e formative nell’ambito delle materie umanistiche e della cultura civile”. Quanto appare inattuale, adesso che la politica è diventata scienza (economica, innanzitutto)? Adesso che la crisi della politica si manifesta come “crisi dell’umanismo”? Adesso che per la cultura civile non vi è più da propugnare un’alleanza tra scienza e umanismo, ma piuttosto da ostracizzare quest’ultimo (così da lasciare campo aperto non alla scienza autentica, ma alla tecnopolitica)? Ecco, io penso semplicemente che il dato della scomparsa del ceto medio riflessivo vada interrogata senza moralismo. A partire per esempio da un mutamento di prospettiva. Per anni l’associazionismo ha sopportato la decadenza della qualità dei politici affidandosi quasi in forma dogmatica al mito della società civile. Il culmine di questa convinzione sta forse nella hybris del M5S, nel momento in cui ha sostenuto che la politica potesse fare a meno dei politici e che la società civile in sé potesse fare la politica. Ora possiamo laconicamente riconoscere che alla crisi della politica si accompagna la crisi della società civile. E che entrambe sono la conseguenza di un unico processo di disintermediazione, ma anche di interdizione di quel riconoscimento pubblico del legame sociale (la solidarietà), che resta uno dei principi ispiratori della nostra Costituzione.

Rileggendo lo Statuto, si comprende come LeG abbia probabilmente evitato qualunque mitizzazione per riconoscere che la democrazia si innerva di un rapporto complesso tra politica e società civile, un rapporto in cui nessuno dei due termini può sostituire o soffocare l’altro. Ma anche questo mi pare un punto decisivo per il nostro futuro: come si fa ad essere “cinghia di trasmissione” tra due elementi che sono entrambi in crisi, che arrancano singolarmente? Io credo mettendoci preventivamente d’accordo su alcune cose.

La prima è che nessuna scorciatoia può eludere la difficoltà del processo di accoppiamento strutturale tra politica e società civile. LeG non può né trasformarsi in una lobby che ha come obiettivo quello di pesare in forma immediatamente politica, né può cedere alla tentazione di essere un circolo culturale che osserva ciò che accade alla nostra democrazia con sguardo un po’ snob e un po’ elitario. Torniamo al “pensiero partigiano” che ho evocato all’inizio come una delle eredità dei nostri maestri. Io credo che il nostro compito resti quello di pensare, ma che questo pensiero debba contenere in sé tutta la radicalità delle proprie convinzioni politiche. Del resto la Costituzione non è la via maestra del pensiero, è la via maestra di un certo modo di immaginare la società e i suoi rapporti verticali con il potere. E d’altro canto, se il pensare è uno dei capri espiatori del nostro tempo, che senso avrebbe pensare senza prendere posizione? Oggi più che mai pensare è prendere posizione, è già una scelta di campo.

La seconda è che vi sia nell’aria – controintuitivamente – un bisogno di cultura e di senso del legame collettivo che si amplia con la sua mancanza e che prende pieghe spesso impreviste e anche rischiose (i social rappresentano un ottimo terreno di scontro a tal proposito). Mi perdonerete la brutalità: io sono persuaso che non c’è democrazia senza ceto medio riflessivo. O meglio: quello che resta sotto il nome di democrazia non conserva più i caratteri fondamentali che ad essa abbiamo assegnato per lungo tempo. E dunque uno dei nostri compiti è lavorare perché si facciano delle leggi che rendano i luoghi della cultura, a partire dalla scuola, luoghi di alfabetizzazione civile e non meri spazi di avviamento lavorativo. E se adesso questo compito può esplicitarsi in senso solo negativo – cioè lavorare perché non si facciano leggi che finiscano per decostruire le nostre buone scuole trasformandole in pessimi luoghi di addestramento alla servitù volontaria – sappiamo che la radicalità del nostro impegno consiste né più né meno nel credere che ciò che è in gioco è ormai la sopravvivenza stessa di un ideale di società che si è istituzionalizzato nelle democrazie liberali. Si tratta di trovare il modo di contribuire a ricostruire un ceto medio riflessivo (che non potrà essere più quello di prima e non corrisponderà più alla rigidità delle fasce sociali precedenti) nell’era in cui la quota di povertà sociale – anche educativa e culturale – è scandita dalle misure abnormi della diseguaglianza.

Perché ho raccontato confusamente questa storia? Perché vorrei essere chiaro almeno su due punti, sul perché LeG sia ancora così preziosa nonostante i cambiamenti e su cosa vogliamo essere dentro questi tempi che sono cambiati.

LeG ha una reputazione e una essenza civile che non soltanto non sono state superate dalle vicende politiche ma che anzi si sono in un certo senso radicalizzate. Perché se prima il pericolo aveva un nome e un cognome e un titolo di merito non troppo meritato, ora quello stesso pericolo si è esteso fino al punto di far pensare che la democrazia – unico regime di governo costretto a cercare gli anticorpi in sé – non riesca a produrli in quantità necessaria per salvarsi. Quella che sembrava un’eccezione è diventata un sistema. Ora sappiamo che non è solo una forma storica di democrazia costituzionale ciò che cerchiamo di mettere al riparo, ma un’istituzione della società che passa attraverso la forma delle leggi che essa si dà.

Il mondo è cambiato e le eredità che ci vengono consegnate sono spesso intollerabilmente insostenibili. Eppure bisogna, per quanto possibile, accettarle con gratitudine e senza darsi troppa importanza. LeG non deve difendere il passato, deve contribuire a costruire un futuro che adesso nessuno vede più. Come non lo si vedeva più ai tempi della Resistenza, di Gobetti, di Rosselli, di Calamandrei. Lo deve fare con i suoi strumenti, che non sono le armi per fortuna, ma senza perdere la mite radicalità che da sempre la contraddistingue. La democrazia sta anche nella vita latente della nostra società. Ciò che non si vede, non è affatto detto che non vi sia.

 2. Orizzonti post pandemici

 Non ho ancora volutamente fatto riferimento a ciò che è accaduto in questo anno e mezzo. A quanto sia stato un trauma per tutti e, anche, per la nostra Associazione. Che il mondo sia cambiato non c’è alcun dubbio. Ma che sia cambiato in meglio, permettetemi di esserne meno certo. La sensazione è che non siamo diventati migliori, ma peggiori. Che tutti i processi a cui abbiamo già fatto riferimento – la crisi della politica, la crisi della società civile, la disintermediazione e la fine del legame sociale, la trasformazione della democrazia dell’uguaglianza in regime che sclerotizza e accentua le diseguaglianze, l’Europa come sogno contraffatto – non siano stati interrotti ma abbiano subito una gigantesca accelerazione.

Per fortuna, accanto a quest’accelerazione c’è stato però un brutale esercizio di smascheramento. Dopo anni di accanita propaganda contro il pubblico, tutti si sono dovuti rassegnare all’idea che i tagli alla sanità pubblica (ma anche alla scuola pubblica) abbiano prodotto danni concreti. Per la prima volta da tanto tempo la parola debito non sembra un tabù e non esiste più il partito unanime dell’Austerity.

Questo smascheramento – così reale perché così doloroso – è una buona notizia ma non è sufficiente. Perché a me pare già in atto un processo di normalizzazione che tende a usare quanto successo per portare avanti con più convinzione e avidità i perversi compiti sulla democrazia che erano stati assegnati prima. A qualche mese dal nostro documento dedicato alla nascita del governo Draghi (L’attesa messianica, 5 marzo 2021), credo si possa purtroppo riconoscere che il programma perseguito stia in buona parte l’attuazione di questo processo di normalizzazione. E, al contempo, che a questa continuità (o addirittura questa radicalizzazione) del governo Draghi rispetto alla direzione delle politiche degli ultimi decenni non corrispondano conversioni sulla via di Damasco da parte dei partiti politici, che anzi tendono a censurare le proprie responsabilità e ad affiancarsi alla distruzione creativa del capitalismo, per cui se non è possibile trasformare la democrazia tramite l’Austerity si trasformerà tramite le apparenti politiche redistributive del PNRR. Sempre in quel documento avevamo evocato una sorta di “auto-delegittimazione” della politica, rassegnata a consegnarsi al governo dei migliori. Con l’avanzare del tempo questa auto-delegittimazione è diventata un vero e proprio programma politico per il prossimo futuro: con alcuni partiti che hanno semplicemente deciso che il loro unico obiettivo sia “eternizzare il governo dei migliori”. Come se per reagire all’auto-delegittimazione i partiti non avessero trovato di meglio che affidarsi incondizionatamente a una legittimazione carismatica e dall’alto. Draghi non è più il nome di un primo ministro, è il nome di un programma che supplisce alla mancanza di programmi. Dall’auto-delegittimazione all’etero-legittimazione, potremmo dire. Quella che avrebbe dovuto essere una situazione eccezionale si presenta così per l’ennesima volta come uno schema politico pronto a irrigidire la scena futura (spero di sbagliarmi, ma non ci scommetterei troppo).

Introduco qui quella che mi pare l’ipotesi di lavoro fondamentale per la nostra Associazione, a partire dalla quale seguono dei corollari altrettanto importanti.

L’ipotesi è dunque questa: che il processo di lungo termine – che pare ormai quasi concluso – è suscitato da un evento storico politico fondamentale, cioè la progressiva messa a distanza della democrazia da parte del capitalismo. Se per decenni capitalismo e democrazia hanno convissuto fino a compenetrarsi, nelle versioni più radicali, o fino a fare della democrazia un argine redistributivo dell’abuso capitalistico nelle versioni più socialdemocratiche, ciò a cui assistiamo da tempo è un processo di inimicizzazione della democrazia nella sua versione consegnata alla potenza della Costituzione. L’obiettivo è dunque svuotare la democrazia del suo significato sostanziale per ridurla a semplice rito di legittimazione delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo senza controllo. Se questa tesi è vera, perché essa dovrebbe avere effetti concreti sugli obiettivi associativi? Provo ad elencare alcuni punti su cui lavorare insieme.

1. Credo che sia impossibile rincorrere un tema fondamentale, quando siamo dentro una rottura di sistema. Voglio con questo dire che non possiamo inseguire il presente: esso è fatto di tanti fenomeni che sono tutti importanti ma di cui comprendiamo il valore solo se li contestualizziamo all’interno di questo passaggio sistemico che trasforma il rapporto tra capitalismo e democrazia. Il nostro compito è dunque di approfondire i luoghi politici in cui questa inimicizzazione si fa reale. Ed è un elenco infinito: la sclerotizzazione delle diseguaglianze; l’opacizzazione del lavoro che resta il fatto in grado di definire i nostri legami sociali (da qui l’avversione nei confronti del reddito di cittadinanza) ma che non lo fa più sotto il segno della dignità e della mobilità sociale ma sotto il segno dello sfruttamento e della precarietà (fino alla diffusione di una figura sociale che reca con sé tutta la drammaturgia del tempo presente: il working poor); il tempo esecutivo che trasforma i parlamenti in gusci vuoti che devono verbalizzare quanto deciso da pochi e da altri che si autodichiarano “migliori”; la minaccia persistente dell’autonomia differenziata; l’affronto per cui si approfitta di una evidente crisi della magistratura – l’unico argine di legalità che in questi anni ha retto – per metterla fuori gioco e ingabbiarla dentro meccanismi di legge che aumenteranno l’impunità dei potenti e il disorientamento dei deboli; la sfacciata criminalizzazione dei migranti, con l’unica conseguenza di giustificare il loro persistente sfruttamento; la dismissione della cultura cui ho fatto già riferimento.

La sensazione è che ogni giorno si apra un fronte e che ciò che ci attraversa sia ormai quella stessa frustrazione di chi sta cercando di svuotare il mare con un piccolo bicchiere. Essere presenti sulla scena pubblica non vuol dire cercare di occupare la scena in ogni occasione. Il compito di LeG è secondo me triplice: approfondire i temi senza lasciarli alla superficialità – a anche alla spettacolarizzazione – che regna nella discussione pubblica; ricondurli pubblicamente a quell’unica “inimicizia nei confronti della democrazia costituzionale” di cui ho già detto; costruire delle proposte pubbliche – insieme ad altre associazioni – che mettano in crisi un ingranaggio così complesso e che permettano quelle necessarie “prese di posizione” politiche. Non so se questo possa evitarci la frustrazione, ma so per certo che solo attraverso uno sguardo quanto più possibile attento alla complessità dei processi in atto sia possibile restituire a questo paese una discussione pubblica e delle pratiche politiche all’altezza delle sfide reali.

2. Credo che il nostro rapporto coi partiti debba in questo momento avere la forza della radicalità. Si tratta di riconoscere e di dire che il problema dei partiti è un problema culturale, prima che politico. Essi non sono più in grado, in senso letterale, di tenere fede al compito assegnato dall’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Oggi i partiti sono oligarchie che non permettono una reale libera associazione (il problema determinante della selezione della classe dirigente, che vale per la verità in ogni ambito istituzionale) e che non determinano più la politica nazionale ma, semplicemente, si affidano al carisma dei migliori o alle offerte che non si possono rifiutare da parte di poteri non legittimati democraticamente (mi pare buona cosa ricordare il caso della GKN, dove la dignità dei lavoratori si scontra con l’impotenza di uno Stato che ha delegato da anni ogni politica industriale agli attori meno indicati, quelli che ne traggono maggior profitto. E dove, per fortuna, nonostante l’impotenza della politica resiste ancora la forza del diritto). Ma come si fa a ricominciare, se non attraverso la scelta di un’idea di società? A me la crisi dei partiti pare soprattutto questo: non solo aver delegato l’esercizio del proprio potere ai “governi dei migliori”, ma soprattutto aver accettato persino con entusiasmo di diventare le guardie giurate dell’idea di società che i migliori rappresentano. Così la crisi dei partiti è funzionale perché è culturale: essi non riescono più a comprendere la radicalità della sfida e si limitano a non fare ciò che non possono fare.

Ciò vuol dire che tutti i partiti sono uguali? Per niente. Ma noi non dobbiamo scegliere un progetto politico o un altro: dobbiamo semplicemente pungolare i progetti politici e suggerire azioni politiche in modo che essi siano all’altezza della serietà della situazione in cui ci troviamo. Nella consapevolezza però che dal punto di vista culturale i partiti che non appartengono alla nostra area di riferimento sono avvantaggiati. Essi hanno infatti un’idea di società cui appoggiarsi. La radicalità della sfida l’hanno accolta e sono pronti a supportare politicamente la tendenza finale che consegna la democrazia al potere del capitalismo contemporaneo. Il deficit culturale e politico sta tutto dall’altra parte, purtroppo. Del resto è dura difendere la democrazia se non si crede più in essa.

3. Paradossalmente l’ipotesi da cui sono partito permette anche a LeG di rifare i conti con la propria genealogia. Provo a spiegarmi in questo modo: mi pare che oggi, se il capitalismo non è più alleato con la democrazia costituzionale ma sta cercando di trasformarla in un guscio vuoto, non abbia più senso il sospetto con cui è sempre stato guardato, da altre parti, il socialismo liberale. L’ultima versione del capitalismo – ciò che con parola abusata definiamo neo-liberismo – non può avere nessuna affinità con il socialismo liberale, dal momento che ciò che esso considera il metodo fondamentale, l’equilibrio che procede dalle democrazie liberali, per il neoliberismo è l’ordine istituzionale da svuotare, delegittimare e infine bandire. Credo sia giunto il momento di una grande alleanza culturale e politica sotto il segno della democrazia, ora che la democrazia è messa esplicitamente sotto attacco dal capitalismo. Del resto era già Carlo Rosselli a riconoscere che la dialettica tra fascismo e antifascismo era almeno a tre, dovendoci aggiungere il capitalismo.

3. Il nome di tutte le cose

Ho finora fatto riferimento a una trasformazione radicale della democrazia che non è affatto nella sua fase iniziale e che punta a svuotarla fino a rendere auspicabile il suo contrario e scandalosa la sua attuazione. E per me, per tutti, il contrario della democrazia ha tante forme ma un solo nome: si chiama fascismo. Il nome di tutte le cose. Una costituzione materiale sta accelerando. Non siamo più un paese antifascista. La radicalità del conflitto sta tutta qui, nel fatto che il terreno comune della democrazia sia diventato un terreno conteso e, allo stato attuale, un terreno che stiamo perdendo. Bobbio scriveva che “il fascismo non è un pericolo, è una vergogna”. Ecco, a me pare che la situazione si sia oggi completamente rovesciata. Il fascismo è un pericolo; lo è proprio perché non è più una vergogna: questo è il tempo in cui chi si dichiara fascista viene osservato con benevolenza, chi si dichiara antifascista viene deriso quando va bene, ostracizzato quando va male.

Anche io ho difficoltà a dirmi queste cose: mi pare come se mancasse il terreno sotto i piedi. Credo però sia opportuno dirlo. Non c’è più alcuna posizione di privilegio nell’essere antifascisti. E dunque, allo stato attuale, l’antifascismo deve cercare altre parole e altre pedagogie per farsi comprendere.

LeG ha sempre avuto una vita interessante. Oscillante e non continua. Ogni volta che il pericolo della democrazia diventava imminente, essa ha contribuito a rimediare e a salvarla per quanto possibile. È accaduto con il berlusconismo, con il referendum costituzionale del 2016. Come se ci fossero persone silenziose e nascoste pronte a opporre resistenza, quando vi è davvero bisogno. La brutta notizia è allora, ironicamente, una buona notizia per noi. Dove stiamo andando, infatti? Che tempi politici ci attendono? Spero di sbagliarmi ma a me pare si stia andando verso un tempo in cui la maggioranza parlamentare rischia di essere – diciamolo con la necessaria prudenza – esplicitamente non antifascista. Se ciò accadrà, sarà una diretta conseguenza di politiche ormai decennali e trasversali che hanno logorato lo spazio pubblico, puntato a indebolire i legami sociali e infine trasformato la democrazia degli uguali in una “democrazia delle diseguaglianze” (che è chiaramente una contraddizione). Stiamo andando precisamente dove l’inimicizzazione della democrazia ci sta conducendo da tempo. E se una lettura genealogica impone la capacità di connettere le cause e gli effetti, non possiamo non riconoscere che la difesa a spada tratta del “governo dei migliori” non è affatto un modo per eludere il rischio che stiamo correndo, anzi è piuttosto un modo per renderlo sempre più concreto.

Del resto, chi studia il fascismo sa perfettamente che ciò che conta è studiarne la linea genealogica. Il fascismo è sempre il prodotto di una crisi di sistema e di una incapacità di opporsi a un cambio radicale dell’idea della società. Se è vera la tesi che ho provato a mettere al centro, l’inimicizzazione della democrazia ha come causa l’adesione culturale a un certo tipo di capitalismo. E questa adesione culturale e politica in questi anni è diventata bipartisan. Anche gli spazi politici che avrebbero dovuto rappresentare l’argine politico a ciò che sta giungendo hanno contribuito fortemente al delinearsi di questa genealogia. Il nostro compito sarà dunque di uscire da una lettura sincronica della questione per ricordare a tutti la diacronia genealogica e suggerire di non ripetere gli stessi errori. L’unico argine politico efficace contro la tentazione del fascismo (nelle sue forme contemporanee che addolciscono il concetto sotto il segno della democrazia illiberale) è di “affamarlo”, tramite una democrazia sociale in grado di rendere alla società un grado dignitoso di uguaglianza. Ecco perché uno sguardo su ciò che accadrà impone una rigorosa e anche eretica attenzione a ciò che sta già accadendo. Non basta più una “democrazia senza aggettivi”, ma serve soprattutto una “democrazia dell’uguaglianza”.

Insomma, il programma è vasto e l’impegno deve essere altrettanto esteso, praticando il più possibile un codice democratico anche dentro l’Associazione stessa. La democrazia non ha altra forma di difesa che non sia sè stessa. Ma credere nella democrazia vuol dire essere intimamente persuasi che essa possa risultare alla fine anche convincente. Ecco il nostro compito: convincere che il modello della democrazia costituzionale sia molto meglio di tutto ciò che si sta imponendo e che sta arrivando. Per colui che ama la democrazia, non è un compito particolarmente arduo. Ma proprio per chi ama la democrazia, è certamente il compito più urgente.

* Sergio Labate è il nuovo presidente di Libertà e Giustizia

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