L’ETERNO ENIGMA DELL’ECCLESIASTE TRA LUCE E BUIO

12 Set 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

L’umanità è il risultato dell’infinità delle vite che hanno lasciato i propri segni. Non è una religione e nemmeno un “grande essere” con i suoi riti, sacerdoti, giudici, dogmi, catechismi, paradisi e inferni. Se fosse così, saremmo in pieno dentro una pericolosa metafisica amministrata da “preti dell’umanità” e la società si presenterebbe come un mostro tentacolare.

Usando questa degna parola – umanità – non la si deve assolutizzare e spersonalizzare, a pena delle più terribili deviazioni e crudeltà. Essa ricorre, per esempio, in una pétition al tempo della Rivoluzione: «Par pitié, par amour pour l’humanité, soyez inhumains!». Il libero intreccio dei segni non ha a che vedere nemmeno con ciò che è detto programmaticamente nelle prime parole del Catéchisme positiviste di Auguste Comte: i sociologi, cioè gli esperti dell’umanità (oggi potremmo dire ironicamente: gli analisti), prendano su di sé il governo del mondo.

L’umanità è un concetto descrittivo, aperto, umile e disponibile ad accogliere molte esperienze. Accoglie il più piccolo gesto, la paroletta che resta impressa quasi per caso, il tasto del pianoforte che rompe il silenzio e induce a pensare, le gesta grandiose e terribili delle “personalità storiche”, gli atti d’amore e le sordide transazioni della coscienza, le manifestazioni d’orgoglio che umiliano i deboli e le rivolte alle umiliazioni.

Chi può dire che cosa conta e che cosa è irrilevante, che cosa conta di più e che cosa di meno? L’umanità, così, non è una garanzia, non è il paradiso delle virtù, e neppure l’inferno di tutte le bassezze. È una selva in cui ci si trova immersi, nella quale districarsi è difficile. Soprattutto è una selva in cui nessuno può credere di aggirarsi con la sua sovrana volontà. Possiamo operare per migliorarla, cioè per ridurre o eliminare i segni che non ci piacciono, ma anche l’umanità disumana è pur sempre umanità.

Tuttavia, perché si possa parlare di umanità occorre lasciarsi colpire. La somma di indifferenti è la disumanità. Al tempo stesso, nega il “diritto al segno” che spetta a ogni essere umano. Questo strano diritto è una pretesa importante, è il più fondamentale dei diritti, ma è diverso dai diritti giuridici: lo si può proclamare e scandalizzarsi, di fronte allo spettacolo di tante vite sprecate; ma se lo scandalo momentaneo non trova un ambiente sociale ricettivo non è che un fuoco fatuo. È un “diritto” che deve essere accompagnato e circondato da reazioni ambientali che sfuggono al dominio del diritto. Non c’è giudice a cui rivolgersi per pretendere sensibilità. Ma, per le persone sensibili tutto può avere significato, perfino la morte, nostra o altrui.

Perfino la morte è capace di contare, se non anche come segno attrattivo (che si debba essere contenti di “passar a miglior vita”, è cosa che invano si cerca di far credere a scopo consolatorio), almeno come segno di umanità e non come amaro e scandaloso proclama di insensata sconfitta. È ciò che accade con meraviglia, nel momento della sua morte, al grigio burocrate benpensante Ivan Il’i nel romanzo di Tol’stoj, quando alla fine egli riesce ad afferrare ciò che il sole illumina e che non aveva mai osservato. Ed è ciò che accade talora a noi stessi quando accompagniamo, standogli vicino e amandolo fino alla fine, qualcuno che ci è caro; quando dal suo modo di morire usciamo segnati e accresciuti in umanità. Se c’è chi ha avuto la fortuna di quell’esperienza di intimità nella vita e nella morte con qualcuno, comprenderà il valore di questa lezione.

Qohelet sembra lontano da questa specie di balbettante meditatio mortis. Ma egli ci sta sempre davanti inesorabilmente, guardandoci con le orbite vuote della sfinge. Guarda in te stesso e troverai solo vanità, dice. Non solo vanità della vita e della morte, ma anche vanità della tua meditazione. Qohelet non parla mai di paura. La paura presuppone che esista un terreno su cui appoggiamo, che tuttavia può franare. Egli dice che questo terreno non esiste e che tutta la vita è vuoto, dunque lo è anche la morte. Non abbiamo nulla su cui appoggiarci, nulla da perdere o da guadagnare. Perché, allora, avere paura? Rannicchiamoci nella nostra solitaria insensatezza e non pensiamoci più. Forse, il messaggio ultimo ch’egli ci lascia è, per l’appunto, questo: lasciate perdere, mortali; se potete, accontentavi di qualche palliativo che, come un sollievo, aiuti ad allontanare i pensieri.

Paradossi o estrema sapienza? Non fai paura, o morte, ma il prezzo è altissimo: annullarla, devi, nell’annullamento della vita stessa. Se non hai paura della morte è perché non ti aspetti niente dalla vita. Alla fine, dovresti chiederti che senso ha non morire, ma vivere. Proprio come fanno i “depressi”, i disgustati della vita che equiparano vita e morte. Allora, come non c’è alcun motivo per vivere, così non c’è nessun motivo per non morire. Basta poco, una malattia, un dolore, un turbamento, perché dalla vita si decida di passare alla morte: insensata l’una, insensata l’altra. Non che Qohelet faccia l’elogio del suicidio, ma certamente abbatte la barriera, l’amore per la vita che protegge dalla tentazione.

A questo punto ci hanno condotto i pensieri che Qohelet ha messo in movimento. La conclusione non è sua e non può in alcun modo considerarsi un’interpretazione. È una meditazione “a partire da”. Chiunque lanci un messaggio, tanto più se enigmatico, sa che esso sarà accolto, alterato, respinto al di là della sua volontà e previsione. E poco interesserà sapere qual è, se c’è, un significato che possa dirsi autentico. Una volta che sparisca l’autore, l’autenticità è una chimera. Tanto più, in un caso come è il nostro, in cui l’autore è sconosciuto, forse non esiste e non sappiamo in che circostanze ha lasciato il suo detto. Forse sono frasi di (pseudo) saggezza popolare messe insieme da qualche scriba intestandole a una maschera.

Il punto di partenza e d’arrivo di questa piccola meditazione è il rigetto della sua visione lugubre della vita. Non c’è alcuna verità da predicare. È un atteggiamento spontaneo di chi sa provare le gioie che s’incontrano lungo i giorni della vita e le pregia più dei dolori. È un compito al quale può sottrarsi solo chi, la vita, la disprezza. La sua vita bella non è, e neppure bella è la sua morte. Qohelet non aiuta a vivere bene, né a bene morire.

Qualcuno, giunto fin qui, forse dirà a se stesso: manca qualcosa. Forse. In una cartolina gettata da un “trasporto” ad Auschwitz, fortunosamente salvata, leggiamo: «Apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto”. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci [] La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. [] Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma sono molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. [] Arrivederci da noi quattro».

Queste parole sono di una ragazza olandese di 29 anni, Etty Hillesum, dai nazisti destinata a morire perché ebrea. Sarebbe stata uccisa il 30 novembre 1943, forse anche allora cantando, dopo avere diffuso intorno a sé dolcezza, aiuto e amore per la vita. Tutti questi sono certamente “segni”. Riceverli o respingerli è un fatto personale. Chi sì, e chi no. Chi avrà la fortuna, o la grazia, di dire sì avrà sconfitto la tristitia con un sovrappiù di laetitia fino al momento estremo della vita. Questo è quanto, e non c’è nulla da aggiungere.

La Repubblica, 9 settembre 2021

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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