LA “RIFORMA” CARTABIA, UN PO’ DI STORIA E QUALCHE CONSIDERAZIONE

03 Set 2021

Per una migliore comprensione del dibattito sulla giustizia occorre fare un passo indietro di quasi trent’anni. Andare cioè all’epoca di “Mani pulite”, come veniva definita la fase in cui la magistratura aprì una serie di indagini sui fatti di corruzione di cui era responsabile la classe politica italiana.

Quella vicenda può essere considerata un momento di svolta rispetto all’epoca precedente perché, con una modalità mai vista in precedenza, le indagini condotte sui fatti corruttivi furono senza timidezze e senza sconti nei confronti della classe politica. Da lì ebbe inizio la rottura tra politica e magistratura, e l’accusa ai giudici di invasione di campo nella politica, o addirittura di un’azione di supplenza; in realtà appariva chiaro come la classe politica non fosse in grado già da allora di far pulizia al suo interno.

Lo scontro raggiunse il suo apice con l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, imprenditore legato al mondo della politica e accusato di numerosi fatti di corruzione. Divenuto Presidente del Consiglio egli aveva potuto far approvare numerose leggi (le cosidette leggi ad personam), che tendevano a metterlo al riparo dai processi (abrogazione parziale del reato di falso in bilancio, ostacoli alle rogatorie da uffici giudiziari esteri, sospensione dei processi per alte cariche dello Stato, trasferimento di processi per sospetto sull’imparzialità dei giudici di un determinato ambito territoriale, accorciamento dei termini di prescrizione per portare all’estinzione i processi, ecc.).

Si può dire che, da quel momento, il dibattito politico in tema di giustizia penale rimase alterato proprio dalla presenza di un Presidente del Consiglio (cioè del principale esponente politico del paese),imputato di gravi reati. Ancora oggi si risente di questa alterazione, tanto che spesso si avverte una certa volontà politica di “normalizzazione” della magistratura, accusata di invadere il campo della politica non appena un dirigente politico venga sottoposto ad indagine penale.

Fatta questa premessa, da tenere sempre presente, occorre dire che il problema principale della giustizia in Italia, non solo penale, è un problema di efficienza. La giustizia, e quindi la celebrazione dei processi, si muove in modo troppo macchinoso, con regole bizantine, a volte anche proprio in funzione di maggiore garanzia degli imputati. Si è così venuto a creare un artificioso contrasto tra garantismo e giustizialismo.

Per “garantismo” si intende il principio in base al quale il cittadino coinvolto in un processo penale deve poter disporre di tutti gli strumenti difensivi necessari ad assicurargli una efficace tutela. Per “giustizialismo” si intende, all’opposto, l’eccesso accusatorio da parte della pubblica accusa, con l’uso di strumenti di pressione (quali ad es. carcerazioni ingiustificate), che tendono a prevaricare i diritti dell’imputato. E’ chiaro quindi che il garantismo rappresenta un valore positivo, un principio fondamentale di ogni società civile. Di contro il giustizialismo, in quanto eccesso accusatorio, rappresenta una sorta di patologia del sistema. Se un tempo la normativa processuale lasciava a desiderare quanto a garanzie degli imputati, si deve dire che oggi il pendolo tira dalla parte opposta. Negli anni Settanta una grande battaglia a favore del garantismo fu combattuta dalla sinistra italiana. In seguito il punto di equilibrio tra accusa e difesa si è gradualmente spostato a favore dei diritti della difesa, attraverso una seria di leggi intese a creare non già effettive garanzie difensive a favore del cittadino, ma una serie di strumenti atti a consentire alla difesa di disporre di cavilli di ogni sorta per ostacolare il normale corso del processo.

La prescrizione è da sempre una delle armi difensive più utilizzata, quella a cui il difensore, del resto legittimamente, ricorre ogni volta che può, in modo da evitare un esito negativo del processo. Ma estinguere il processo senza che sia finito significa anche gettare a mare anni di lavoro di magistrati, avvocati e forze dell’ordine, di indagini, di istruttorie, di dibattimento di primo e secondo grado.

Attualmente, abbiamo visto come il dibattito sulla prescrizione nel processo penale proceda in maniera piuttosto confusa e sia stato pilotato da interessi di vari protagonisti. Occorrerebbe rimetterlo nei suoi binari e per questo occorre risalire ai fondamentali di questo istituto giuridico.

L’istituto della prescrizione è stato pensato e voluto, fin dall’epoca del diritto romano, con lo scopo di evitare che fatti lontani, dimenticati nel tempo, vengano riesumati quando l’interesse della società ad adottare strumenti punitivi è ormai cessato. Quando la stessa persona è cambiata e il tempo è trascorso senza che neppure le vittime del reato si siano attivate, l’avvio di un processo risulta non in consonanza con il pubblico sentire. C’è un vecchio motto latino che sta alla base dell’istituto in argomento: “vigilantibus non dormientibus, iura succurrunt” (le leggi giovano a chi vigila, non a chi dorme) Questo, e non altro è lo scopo della prescrizione. Che quindi riguarda solo la tempestività della promozione dell’azione, che sia civile o che sia penale. A processo iniziato, di prescrizione non si dovrebbe più parlare, poiché l’azione giudiziaria è stata avviata tempestivamente. Così succede nel diritto civile e nel diritto penale di quasi tutti i Paesi europei. (vedi nota*) Si provi a pensare cosa accadrebbe se la prescrizione continuasse a decorrere, in corso di causa, anche nel processo civile. Il creditore (o chi volesse far valere un proprio diritto), dopo avere speso tempo e denaro per anni, si vedrebbe opporre la prescrizione dal suo avversario e si troverebbe beffato.

Il fatto è che, una volta che il processo (civile o penale) sia iniziato tempestivamente, l’esigenza di non sollevare vecchie questioni dimenticate nel tempo non esiste più. Semplicemente perché queste questioni sono già state sollevate entro il tempo stabilito dalla legge. E la lunga durata dei processi non ha alcuna relazione con l’istituto della prescrizione.

Ma allora perché si sentono opinionisti, anche autorevoli, che continuano a mettere in relazione la prescrizione con la giusta durata del processo? In tal modo il dibattito (per merito o demerito, secondo i punti di vista, delle Camere penali) viene deviato dai suoi corretti binari. E anche magistrati autorevoli si convincono che la prescrizione possa servire per eliminare il loro forte arretrato. Ma questo è uno scopo distorto. Rappresenta un uso strumentale dell’istituto giuridico. Che porta all’estinzione del processo senza che esso sia giunto alla sua naturale conclusione. Insomma per evitare quello che viene definito “processo infinito”, si vorrebbe il processo “non finito”.

Inoltre, dove sarebbe il garantismo a favore dell’imputato? La garanzia sarebbe quella, per il colpevole, di sfuggire alla condanna e, per l’innocente, di non raggiungere l’assoluzione. Senza parlare delle vittime dei reati che, una volta prescritto il processo penale, dovrebbero sobbarcarsi il pesante onere di avviare, a loro spese, una causa civile. La prescrizione taglia il processo senza farlo finire. Non aggiunge maggiori garanzie all’accusato innocente, ma, paradossalmente, le riduce. Che soddisfazione ricaverà l’imputato innocente da una sentenza di prescrizione che lascia il dubbio sulla sua colpevolezza? Non preferirà concludere il processo per ottenere una sentenza di assoluzione? Potrebbe rinunciare alla prescrizione, ma quanti lo fanno? Troncare il processo con una sentenza di prescrizione sarebbe come fermare un treno in aperta campagna, prima che sia arrivato alla stazione.

Il fatto che gli avvocati penalisti utilizzino lo strumento della prescrizione per evitare che il processo si concluda con una condanna del loro cliente è legittimo e comprensibile: fanno il loro mestiere. Ma non si dovrebbero scomodare principi sacrosanti come il garantismo o il rispetto della Costituzione. Molti commentatori sostengono che il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado sarebbe contrario alla Costituzione. Citano al riguardo gli articoli 24, 27 e 111.

Ma le cose stanno esattamente al contrario, infatti l’articolo 24 stabilisce che chiunque, con la relativa assistenza difensiva, può ricorrere all’autorità giudiziaria per far valere i propri diritti. Principio sacrosanto. Ma perché il cittadino possa vedere soddisfatto il suo diritto, è necessario che il processo arrivi fino in fondo; se interviene la prescrizione, che ne è di quel diritto? Svanito. Non si saprà mai se quel diritto è fondato o meno, nel civile, o se la pretesa accusatoria è fondata o meno, nel penale. L’articolo 27 stabilisce che l’imputato si presume innocente fino alla condanna definitiva. E’ evidente che si tratta di una presunzione temporanea. Fino alla condanna definitiva, per l’appunto. Trattandosi di presunzione temporanea, essa dovrà necessariamente cessare, prima o poi. E cesserà al termine del processo, quando si saprà se l’imputato è colpevole o innocente. E’ quindi altrettanto evidente che la norma costituzionale presuppone che il processo pervenga ad una sentenza definitiva, che possa sciogliere la presunzione, in un senso o nell’altro. Questo è garantismo! La prescrizione lo impedirebbe. Allora cosa è incostituzionale? Quanto all’articolo 111, esso stabilisce, per quanto qui interessa, che il processo deve avere una ragionevole durata. E’ ovvio che, per “durata”, si deve intendere l’arco di tempo compreso tra l’inizio e la fine del processo. Se il processo non giunge alla sua fine perché è soppresso a metà strada dalla prescrizione, da che parte sta la violazione della Costituzione?

Quindi la prescrizione dovrebbe cessare già con il rinvio a giudizio, cioè con l’inizio del processo, come avviene nel processo civile e in altri paesi d’Europa, senza che nessuno gridi al “processo infinito” o all”ergastolo processuale”. Non è comunque con la prescrizione che si accorciano i tempi dei processi. Lo si fa fornendo maggiori risorse, personale, mezzi, strumenti efficaci, migliore organizzazione, più ambienti, interrogatori in videoconferenza come in qualche sede giudiziaria sta già avvenendo.

La “riforma” Cartabia ha affrontato questi argomenti con interventi per migliorare l’efficienza dell’ attività giudiziaria. Ma lo scontro politico è avvenuto principalmente sulla questione della prescrizione. In Italia, per decenni, i termini della prescrizione del processo penale sono stati regolati nel tempo in maniera, per così dire, elastica, variabili cioè secondo la gravità dei reati e le fasi processuali. Nel corso dei processi a Berlusconi, la legge era stata modificata per abbreviare la durata dei termini, in modo tale da consentire all’imputato di far prescrivere i processi più facilmente. Si tentò anche la strada del cosiddetto “processo breve”, cioè una durata del processo prestabilita nel tempo, ovviamente breve, per arrivare comunque all’estinzione. Ma questo tentativo non passò.

Il testo Cartabia si è innestato su quello dell’ex ministro Bonafede, che aveva modificato il sistema nel senso che la prescrizione nel processo penale continuava a decorrere come prima fino alla sentenza di primo grado, mentre si fermava del tutto nei gradi successivi.

Cioè il processo d’appello e il processo di cassazione non erano soggetti ad alcun termine di prescrizione e continuavano finché non fossero conclusi. Contro questa legge si sono mossi principalmente gli avvocati penalisti, molto presenti in parlamento, che si vedevano sottratto uno dei principali strumenti difensivi (tenendo conto che la stragrande maggioranza dei processi penali si svolge verso rei confessi e quindi il ricorso alla prescrizione resta quasi l’unica ipotesi difensiva). Sono così comparsi slogan come “imputati a vita”, “fine processo mai” e altre amenità del genere. Slogan che purtroppo hanno fatto presa anche presso buona parte dell’opinione pubblica.

Così sono iniziati i tentativi di modifica, sempre solo relativi alle fasi del processo successive a quello di primo grado. Tentativi dapprima sostenuti anche dal Pd con Orlando ministro della Giustizia. E le proposte si sono incentrate proprio nel fissare tempi certi, prederminati, nei processi d’appello e di cassazione. Più o meno il “processo breve” di Berlusconi, per quanto i sostenitori si ostinino nel negarlo. Il testo Cartabia ha poi fissato in due anni i termini del processo d’appello e in uno quelli del processo di cassazione, con l’unica eccezione per i reati comportanti l’ergastolo. Trascorsi questi termini il processo diventa improcedibile, cioè si estingue per decorso del tempo, esattamente ciò che avveniva con la prescrizione (in Italia si usa molto cambiare il nome alle cose per farle sembrare diverse da prima). Così, con marginali modifiche, il testo è stato approvato in un primo consiglio dei ministri.

In questo modo si è giunti a un sistema peggiore rispetto a quello vigente da decenni in Italia prima della riforma Bonafede. Per fare un esempio, basti pensare a un processo che prima si prescriveva in dieci anni. Giunto alla sentenza di primo grado dopo cinque anni, aveva a disposizione altri cinque anni prima della prescrizione nelle fasi successive. Secondo la prima formulazione della riforma Cartabia si sarebbe invece prescritto in appello dopo solo due anni. Si sarebbero poi estinti per improcedibilità un gran numero di processi anche per gravi reati, come avevano subito rilevato osservatori avveduti. Se ne potrebbe insomma, con qualche ragione, ricavare che chi ha voluto questa riforma avesse secondi fini e nessun interesse per l’efficienza della giustizia: o il fine di godere di un fondamentale strumento di lavoro per gli avvocati penalisti, o il fine di vedere eliminato l’arretrato a colpi di prescrizione (o di improcedibilità, come si chiama adesso) o il fine di chiudere comunque un dossier e portare a casa un risultato, qual che fosse, per la politica!

Si consideri che non è questo ciò che chiedeva l’UE, che si preoccupa soprattutto del processo civile e della situazione nelle carceri. Quanto al penale, la riduzione dei tempi significa concludere il processo in tempi ragionevoli, come prevede anche la Costituzione italiana. Concluderlo, però. Non estinguerlo quando non è finito. Questa è una soluzione all’italiana, una presa in giro.

Critiche e proteste hanno però portato a qualche risultato. Il testo di legge approvato dalla Camera è stato modificato e migliorato, con tempi di durata dei processi d’appello e di cassazione modulati e modificabili, con un sistema articolato.

Sono rimasti comunque molti aspetti di criticità sotto vari profili. La prescrizione continuerà a provocare l’estinzione di numerosi processi per gravi reati, pur tempestivamente iniziati, vanificando anni di lavoro e spreco di mezzi. L’ “indicazione” da parte del Parlamento, con legge, dei criteri generali di priorità dell’azione penale suscita dubbi di costituzionalità sotto il profilo della indipendenza e autonomia della magistratura (art.104) e dell’obbligatorietà della azione penale (art.112). Manca la cd. reformatio in peius”, che significa cambiamento in peggio della sentenza di condanna di primo grado, pur sollecitata da più parti. Oggi questo è possibile al giudice d’appello solo in caso di appelli contrapposti contro la stessa sentenza sia da parte della difesa sia da parte della accusa. Se l’appello è presentato solo dalla difesa, il giudice d’appello non può infliggere una condanna più grave anche se la ritiene più giusta. Se invece fosse ammessa questa possibilità, verrebbero scoraggiati molti appelli dilatori, proposti solo per guadagnare la prescrizione. E verrebbe sensibilmente sgravato il lavoro delle corti d’appello. Non sono stati inseriti tra quelli imprescrittibili i reati di corruzione, che rappresentano uno dei più antichi e più gravi problemi della pubblica amministrazione italiana.

Il rischio di estinzione di processi importanti non si potrà eliminare se non si arriverà, come si dovrebbe, a far cessare la prescrizione con l’inizio del processo, in consonanza con il fondamento giuridico dell’istituto.

(*) Può essere utile una rapida panoramica circa la normativa di altri stati. Nel Regno Unito, dove vige la tradizione giuridica di common law, molto diversa da quella del civil law tipico dell’Europa continentale, la prescrizione non esiste. È previsto però un limite temporale (time limit) che riguarda il tempo massimo per proporre l’azione in giudizio da quando è stato commesso il fatto, e non il tempo per perseguire il reato. In altre parole, il processo dura il tempo che serve per arrivare a sentenza. In Francia i termini di prescrizione del reato variano in base alla tipologia dell’illecito, ma possono essere interrotti da qualsiasi atto di istruzione o di azione giudiziaria (cosa che in Italia poteva avvenire una volta sola). La prescrizione decorre dal giorno del compimento del reato, come in Italia; se però interviene un’azione giudiziaria, il conto alla rovescia della prescrizione viene azzerato: in altre parole, finché il processo è in corso, é quasi impossibile che possa estinguersi per prescrizione. In Germania il codice parla di due prescrizioni: quella della perseguibilità del reato (che va da un massimo di 30 anni per le azioni punite con l’ergastolo, a tre anni per i reati meno gravi) e quella dell’esecuzione della pena (che va da un massimo di 25 anni nel caso di pene detentive superiori a 10 anni a 5 anni per pene inferiori a un anno). Questi limiti massimi della prescrizione non creano però un sistema simile a quello italiano precedente, poiché in Germania se il processo arriva alla sentenza di primo grado la prescrizione resta sospesa fino al termine del processo (così come con la riforma Bonafede). Anche qui poi la prescrizione si interrompe al sopraggiungere di determinati atti dell’autorità giudiziaria, come ordini di arresto, interrogatori, incarichi a periti, eccetera. Dopo ciascuna interruzione, la prescrizione ricomincia a decorrere dall’inizio. Stessa disciplina anche in Spagna, dove si prevede che la prescrizione si interrompa se viene aperto un procedimento nei confronti del colpevole. In pratica il termine di prescrizione viene congelato durante tutta la durata del processo sino alla pronuncia di una sentenza di condanna, salvo sospensione del procedimento. Il paese con il sistema che più si avvicina a quello italiano è la Grecia, dove i termini di prescrizione continuano a decorrere anche dopo che il tribunale di primo grado ha emesso la sentenza.

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