PUNIRE O SALVARE, IL DILEMMA DELLA GIUSTIZIA

04 Lug 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

In che consiste la giustizia? Siamo in un tempo in cui, anche alla stregua di qualche esperienza e cultura che vengono da altri Paesi e da altre situazioni, si riflette su quella che viene vista talora come un’alternativa: punizione o riconciliazione? Grande domanda. Sono due concezioni diverse che, tuttavia, non si escludono. La prima guarda al passato delittuoso e ha a che fare con il diritto; la seconda guarda a un futuro virtuoso e ha a che fare con la morale.

Diritto e morale non sono indipendenti ma hanno distinte motivazioni e stanno su piani diversi. Nelle discussioni odierne, sembra invece che pena e riconciliazione stiano su una stessa linea di sviluppo e che la seconda sia superiore alla prima: la punizione evoca l’idea della ritorsione, della crudeltà, se non anche della vendetta; la riconciliazione, invece, fa pensare a sentimenti elevati, come la solidarietà, la fraternità, la benevolenza, la compassione.

In breve, è vero che il progresso civile debba muoversi verso la sostituzione della pena con la riconciliazione? È davvero sempre così? Andiamoci cauti. La riconciliazione, infatti, può essere una nobile aspirazione, ma anche una melliflua e, alla fine, disgustosa tentazione. Anche le squisitezze possono contenere veleno.

Consideriamo un caso-limite: Al Reichsführer-SS Heinrich Himmler (suicidatosi al momento della cattura) e al capo del Deutsche Arbeitsfront Robert Ley (suicidatosi a Norimberga), due sinistri figuri della Shoah, sarebbe piaciuto che si creasse un “comitato di riconciliazione” costituito da nazisti responsabili dei massacri e da ebrei sopravvissuti. Adolf Eichmann aveva a sua volta condiviso questa idea insolente e repulsiva.

Probabilmente coloro ai quali essa era venuta in mente si compiacevano con se stessi per la propria delicatezza, per la propria “grandezza d’animo”. Noi rimaniamo sbalorditi. Ci sembra un’oscenità. Altro che giustizia. Se ci chiediamo il perché di questa ripugnanza, forse saremmo d’accordo nel riconoscere che la riconciliazione deve essere cosa impegnativa, molto difficile e non senza limiti e condizioni.

Soprattutto, non deve degenerare in perdonismo senza dignità. Una società in cui non si tenesse fermo il confine tra il diritto ch’essa stessa ha sancito con le sue leggi e il crimine di chi si è posto fuori o contro, una società in cui si sia disposti a riconciliarsi con superficialità con tutto e con tutti, perderebbe definitivamente il suo onore e la rispettabilità verso se stessa. Una tale società non sarebbe un luogo di delizie, ma una cloaca. Questo è chiaro.

A sua volta, un criminale che pretendesse la riconciliazione semplicemente ammettendo i propri sbagli e se ne scusasse senza trarne le conseguenze, quand’anche fosse in perfetta buona fede e le vittime gli concedessero il perdono (qualunque cosa ciò possa significare) perderebbe anch’esso il suo onore con un pentimento che non costa nulla. In altre parole, la riconciliazione non è solo questione di buoni sentimenti.

Si può andare oltre: i criminali che aspirano alla riconciliazione hanno l’onere di sottoporsi alla pena che hanno meritato secondo la legge. La devono richiedere. Si devono “costituire”. Solo poi si parlerà di riconciliazione. Può sembrare assurdo che si parli della pena come d’una pretesa del criminale. Invece assurdo non è affatto se si tratta di riallacciare rapporti spezzati, quando volontariamente e coscientemente se ne si è distaccati con il delitto.

Il criminale che è sottoposto o si sottopone alla pena, in un certo senso lo si “onora” perché lo si considera quale essere capace di responsabilità per le proprie azioni e quindi come essere capace, sì, di delinquere, ma anche di ripudiare il delitto e di ristabilire i rapporti spezzati. Questo giungono a dire, seguendo percorsi diversi, Georg W. F. Hegel, Immanuel Kant e Simone Weil.

Su questo punto convergono tre figure di “riconciliati” offerte dalla grande letteratura: fra’ Cristoforo, nel IV capitolo di I Promessi sposi, lo starec Zosima e “il visitatore misterioso”, nel Libro VI della II Parte di I fratelli Karamazov. Si dirà: ma come si può parlare della pena come di pretesa del criminale? Non è forse generale esperienza che chi coscientemente e volontariamente viola la legge spera di farla franca, e, se non gli riesce, cercherà di sottrarsi all’esecuzione della pena con i mezzi di cui dispone?

Questo è vero, ma solo per coloro che, della riconciliazione, non sanno che farsene. Chi, invece, questo esito ha davvero a cuore comprende facilmente ch’esso non può esistere gratuitamente, cioè senza l’essersi caricati del peso del delitto commesso. Come potrebbero essere credibili coloro che invocano riconciliazione ma invocano impunità e fuggono dalle loro responsabilità o ne prendono le distanze, degradando ambiguamente i propri delitti a semplici “errori”, che tali non sarebbero stati in altre circostanze storiche, come accade in molti casi di terroristi “confessi” e “pentiti”?

Confessioni e pentimenti appartengono alla morale e bene possono manifestarsi, crescere e intrecciarsi in un dialogo orizzontale tra criminali ravveduti e vittime generose, nello spirito di mutua comprensione, per quanto difficile esso sia. Bene può lo Stato promuoverli e sostenerli, nella prospettiva della pena che, secondo la Costituzione, “deve tendere alla rieducazione”.

“Rieducazione”, però, è mala parola che fa pensare ai regimi totalitari che conoscono i trattamenti fisici e psicologici per piegare la personalità dei dissidenti e omologarla a un’etica di Stato. Sarebbe buona cosa sostituirla con “riconciliazione”: la pena deve esistere ma non è chiusa allo sviluppo della socialità. Ma la pena ha le sue ragioni anche quando si vogliano innescare processi riconciliativi.

Chi legge queste parole non può fare a meno di pensare agli abusi che si verificano nelle nostre carceri e in altri luoghi deputati a gestire tal “monopolio della violenza” che costituisce l’essenza dello Stato moderno e che lo Stato di diritto non è riuscito a sconfiggere del tutto.

Violenza e riconciliazione sono agli antipodi. Al disgusto, si accompagni anche la riflessione sulle condizioni e sul modo di auto-rappresentarsi di coloro che vivono e operano in quei luoghi. Senza di che, parlare della funzione riconciliativa della pena è da filistei. Davvero la questione carceraria urget nos al pari di tante altre di cui si parla di più.

 La Repubblica, 3 luglio 2021

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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