La giustizia e l’eterogenesi dei fini

16 Mag 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Tra le leggi e le cose c’è di mezzo, se non il mare, uno spazio riempito da coloro che le applicano e che il legislatore non è in grado di controllare. La vita ingloba il diritto. Spesso, le intenzioni del legislatore sono vanificate dalla prassi. Si vuole un risultato e se ne ottiene uno diverso. L’eterogenesi dei fini è esperienza frequente nel campo del diritto.

Occorre la cooperazione, non sempre scontata, di coloro che stanno tra la legge e le cose, cioè degli “operatori della giustizia”.

Scrivere parole chiamandole leggi non basta. La giustizia è un sistema complesso di forze e di interessi diversi, spesso antagonisti; ogni legge nuova è un impulso, un fattore di rimescolamento e sarebbe un’ingenuità considerarla coincidente col risultato finale. Ridurre i tempi della giustizia, s’intende, è ciò su cui tutti sono d’accordo. L’obbiettivo è l’efficienza dei processi.

Per questo obbiettivo, ragionando in astratto e per assurdo, si può pensare di manco farli, così durano niente; oppure, sempre per assurdo, di farli sommari, senza complicazioni, così durano poco. A ben pensarci, senza giungere a questi estremi, siamo su queste linee direttrici quando stiamo a trattare della prescrizione dei reati e dei limiti all’appellabilità delle sentenze. Il quadro non è ancora definito.

Non esistono parole ufficiali del governo e si ragiona quindi su ipotesi. I reati, non quelli più gravi, dopo un determinato periodo di tempo “si prescrivono”, “si estinguono”. Di conseguenza, non si procede nei confronti dei loro autori. I giuristi dicono che la prescrizione ha natura sostanziale, oggettiva: l’interesse pubblico dopo molto tempo dai fatti viene meno e l’apparato giudiziario rinuncia a perseguirne gli autori. Ecco una eterogenesi dei fini: anche se lascia un’ombra di possibile colpevolezza, la prescrizione ha cambiato natura, diventando uno strumento processuale per scampare alla giustizia: l’assoluzione per prescrizione per l’imputato, soprattutto se ha qualcosa da rimproverarsi, è meglio del rischio di condanna.

Ma è anche una frustrazione della giustizia: dei magistrati che vedono vanificato il loro lavoro; dei giudici che sono pronunciati invano in gradi precedenti del giudizio, delle vittime dei reati che si sentono beffati e giustificatamente alzano i pugni al cielo.

Non nascondiamoci la realtà: soprattutto nei grandi processi dove sono all’opera i grandi avvocati, maestri nell’usare le risorse della procedura che sono tante (rinvii, eccezioni del più vario genere, rinuncia alla difesa e sostituzione del difensore, ricusazioni, “termini a difesa”, ricorsi, ecc.), spesso si punta più sulla prescrizione che sull’innocenza dell’imputato.

Così, la sconfitta d’una giustizia che -a parole- si vorrebbe rigorosa, certa, uguale per tutti, si trasforma in efficace incentivo della sconfitta medesima. Sappiamo però anche che la prescrizione dei reati è un fatto di civiltà, purché non diventi un salvacondotto. Non si può vivere in eterno restando sotto la minaccia del processo. Il processo è di per sé una pena. Se ha da esserci, lo si apra e lo si chiuda nei tempi più brevi possibili e non lo si lasci pendere sulla testa delle persone.

La prescrizione, che – ripeto – è pur sempre un fallimento della giustizia, serve a porre fine alla minaccia e ad assicurare la tranquillità d’animo che è condizione di libertà. Dunque, i reati devono essere prescrittibili, ma i tempi della prescrizione devono essere compatibili con quelli dell’ordinaria celebrazione dei processi. I primi devono essere proporzionati ai secondi. Se si vuole che la prescrizione sia breve, si accelerino i processi con semplificazioni delle procedure, eliminazione dei pretesti su cui prosperano i causidici, investimenti, riorganizzazioni.

I termini oltre i quali lo Stato rinuncia a esercitare la funzione giudiziaria non c’entrano niente. A meno che non si miri ad altro, all’impunità. Si evoca a tutto spiano l’Unione Europea che vuole processi brevi, ma la Corte di Giustizia si è già pronunciata con chiarezza, ponendo un principio: la prescrizione è contro lo stato di diritto se si traduce in impunità (è la decisione sul “caso Taricco” del 2015: si trattava della responsabilità degli evasori fiscali).

Un altro tema affatica i riformatori: il secondo grado di giudizio. Si pensa di abolire l’appello del pubblico ministero contro il proscioglimento in primo grado. L’argomento è suggestivo: se uno è stato prosciolto una volta, come potrebbe il giudice d’appello ritenere fondato “oltre ogni ragionevole dubbio” il ricorso del pubblico ministero che chiede di rivedere la sentenza d’assoluzione? Argomento suggestivo, sì; ma anche fondato? Il fatto che un giudice si sia espresso è di per sé garanzia che non persistano “ragionevoli dubbi”? Precisamente, ragionando di “ragionevolezza”, proprio in casi come questi non dovrebbero essere ammesse le riconsiderazioni?

Le decisioni di primo grado possono essere arbitrarie, irragionevoli, sbagliate e, proprio per correggerle, esiste l’appello. Pensando di abolirlo in base a quell’argomento, si farebbe cosa assai strana: l’appello serve a correggere i possibili errori, allora basta attribuire al primo giudizio, che potrebbe essere sbagliato, un plusvalore di verità? Non c’è qui qualcosa come un ingolfo logico? Il doppio grado del giudizio non è nella Costituzione. Ma la cosiddetta “parità delle armi” tra accusa e difesa è necessaria in vista del processo “giusto”. Giusto non sarebbe se l’accusa avesse più poteri della difesa, ma anche al contrario, se ne avesse meno: così disse la Corte costituzionale. Come si fa superare lo scoglio?

A quel che si dice, si vorrebbe ristabilire l’equilibrio limitando l’appello anche da parte della difesa dell’imputato. Non abolendolo, ma permettendolo solo in casi “rigorosi” stabiliti dalla legge? Quali? Non è già così? Chi, poi, decide se si rientra nei casi ammessi, se non un giudice d’appello? Che groviglio; quante complicazioni e quante controversie ne nascerebbero? Altro che semplificazione, accelerazione.

In ogni caso, non si risolverebbe la questione dell’uguaglianza tra le parti perché essa non riguarda l’astratta architettura legislativa, ma le concrete posizioni nel processo, nulla interessando se, in altri processi conclusi in primo grado con la condanna, ci possano essere restrizioni dell’appello, questa volta a sfavore della parte accusatrice. Fermiamoci qui, augurando buona fortuna a chi vuol mettere mano a una materia tanto spinosa, ingorgata, pericolosa, a rischio di controversie a priori inimmaginabili e con serie ricadute, per esempio, sulle parti offese dal reato.

Una domanda: si parla nei termini anzidetti di riforma della giustizia per la giustizia. Davvero? Non sarà, invece, che la posta in gioco sia tutt’ altra, politica, la tenuta del governo, di cui la giustizia rischia di fare le spese. E non sarà che la da tutti denunciata malattia della giustizia abbia bisogno di medicine d’altra natura?

La Repubblica, 14 maggio 2021

Fonte foto: antimafiaduemila.com

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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