IL DIRITTO DI SUBIRE LA PENA

01 Mag 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Teniamo distinti i piani, per quanto è possibile. Sono quattro: storico, politico, giuridico ed emotivo. Le ragioni sono diverse e, se i piani si mescolano, la ragione si confonde e si finisce per litigare proprio quando si dovrebbe cercare la chiarezza nella quale – per quanto possibile, ripeto – sta il tanto o il poco di verità di cui siamo capaci.

Nel piano storico stanno tutte le possibili riflessioni su che cosa è stata la crisi del capitalismo (diciamo così) di antico regime e quali forze intellettuali, sociali e materiali tale crisi ha innescato negli Anni ’70 del secolo scorso. La storiografia ha qui da lavorare, formulando le sue ipotesi interpretative per cercare di comprendere che cosa è stato. Ma comprendere non è giustificare. Questo è un punto molto importante, a meno che le responsabilità si pensi di annegarle in una disumana “legge della storia”. La comprensione storica non condanna, né assolve. Al massimo, prende atto delle ragioni che determinano i successi e i fallimenti.

Quando i terroristi ai quali si chiede di rinnegare le proprie azioni criminose, cioè di assumere una responsabilità morale, rispondono che si trattò di “errori” perché i tempi non erano maturi, si comportano da storici che non avevano compreso i tempi e perciò andarono incontro alla sconfitta. L’errore non è una colpa e, dunque, quel tipo di ammissione non ha niente a che vedere con la morale. La distanza che si prende o non si prende dai delitti è “relativa”. Le circostanze storiche e gli obbiettivi raggiunti o falliti distribuiscono le ragioni e i torti. Alla fine, ciò che conta sono gli esiti. Poiché gli esiti non sono stati quelli rivoluzionari desiderati, che si ritenevano possibili, la violenza e gli assassinii di questi nostri criminali politici, quando essi li condannano, sono detti “sbagli” o “errori”.

Sul piano politico (qualunque cosa “politico” significhi), c’è solo da dire che la democrazia non può essere deturpata da violenza, delitto, uccisioni. Il delitto “politico” non è meno grave del delitto “comune”. Anzi: è più grave. La vita democratica è, per definizione, tollerante, ma la tolleranza è una di quelle virtù che si dicono reciproche: non si può, anzi non si deve essere tolleranti con gli intolleranti. Solo nell’ampio spazio della comune tolleranza nascono le virtù della democrazia. Talora si sente dire: ma quello degli Anni di piombo era il tempo in cui anche gli assassinii erano politici e che, quindi, occorre una risposta anch’ essa “politica”.

Per l’appunto: la risposta adeguata al contesto democratico non è il declassamento del delitto a evento collaterale, secondario e in certo senso inevitabile (come forse si potrebbe dire nei regimi totalitari, quando si lotta contro l’oppressore). Naturalmente, ciò presuppone d’essere sicuri di sé quando si parla di democrazia e questa parola non sia usata come scusa per coprire forme più o meno nascoste di esercizio oppressivo del potere politico. La “dottrina Mitterrand” è perfettamente comprensibile e giustificata quando serve a proteggere i perseguitati politici da regimi antidemocratici (in questo significato essa è perfettamente in linea con l’articolo 10 della Costituzione italiana).

Ma la protezione che, finora, la Francia aveva concesso ai terroristi di cui stiamo parlando stava a significare una certa arroganza: noi siamo la patria della libertà e della democrazia e, da questo pulpito, diciamo all’Italia ch’essa non lo è o non lo è abbastanza. Oggi, se ci sarà l’estradizione, questa offesa sarà lavata.

Sul piano giuridico, se e quando le procedure per l’estradizione giungeranno a conclusione, non ci sarà ragione per ritenere che questi criminali, che tali sono in forza di sentenze definitive, debbano essere sottoposti a condizioni penitenziarie particolari. Si dovrà applicare il diritto comune. Ovviamente, si dovrà tenere conto del tempo trascorso e delle tracce ch’esso ha lasciato su di loro, come accade per tutti i viventi.

Perciò, si dovrà e potrà valutare se a ciascuno di essi possano applicarsi i benefici previsti dalla legge penitenziaria. Esclusi quelli che presuppongono un periodo di detenzione in cui sia stata tenuta una condotta meritevole di attenuazioni, resta la detenzione domiciliare che, a meno di cause particolari ostative (come la condanna all’ergastolo), riguarda in generale i detenuti ultrasettantenni.

Nella sfera delle emozioni troviamo risentimenti e desideri di vendetta, soprattutto nei sopravvissuti che sono stati colpiti direttamente e ferocemente in sé o nei propri cari. Tutti coloro che si sono espressi hanno però precisato che quello che li muove è il sentimento di giustizia, non il desiderio di ritorsione (occhio per occhio, ecc.). Non c’è motivo di dubitarne, ma anche se non fosse sempre e completamente così non ci sarebbero motivi per obiettare. Ognuno è padrone dei propri sentimenti.

D’altro canto, qualcuno potrebbe negare che sia tormentoso il pensiero che assassini o aggressori di persone care e innocenti siano lasciati tranquilli, come se si trattasse di qualche accidente trascurabile, facile da dimenticare. Questo pensiero che rode le vittime che considererebbero un tradimento l’oblio, che cosa è: desiderio di giustizia o di vendetta? Difficile dirlo. Forse è una cosa e l’altra. D’altro canto, pretendere che chi ha commesso gravi delitti non se ne possa andare come se niente fosse e, invece, si ponga davanti alle sue proprie responsabilità è perfino un omaggio alla sua umanità, un riconoscimento del valore delle sue azioni: un valore negativo, certo, ma pur sempre un valore. È come dirgli: tu sei qualcosa per me, non un trascurabile fuscello che se ne va via dimenticato.

Da questo punto di vista, si è parlato da parte di grandi filosofi non di “dovere”, ma di “diritto di subire la pena”, come elemento della dignità umana. Sembra un paradosso, una contraddizione. Ma non lo è. È, anzi, il presupposto e la condizione perché possa aprirsi una prospettiva nuova della giustizia penale, la prospettiva della riconciliazione, della ricomposizione.

Proprio nella nostra materia sono state avviate iniziative, pare con successo, di confronto tra terroristi e vittime del terrorismo. Il fine di questa giustizia non sta nei buoni sentimenti o nel perdono a basso costo. Sta, invece, nel tentativo di rammendare un tessuto lacerato dal delitto, un tentativo che presuppone non l’oblio ma, al contrario, l’assunzione delle proprie responsabilità. Questo, però, è solo uno spunto che merita d’essere coltivato.

La Repubblica, 30 aprile 2021

Fonte foto: ansa.it

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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