Alessandro Bonsanti e Carlo Emilio Gadda, lettere dal Novecento

31 Mar 2021

Era una brutta estate quella del 1974; un tempo che oggi dovrei rimpiangere, per tutti quei cari che nel frattempo se ne sono andati. Eppure è vero che la linea dei colli che si stendeva dietro la casa di vacanza, oltre l’Aurelia, sbiadiva troppo presto, mentre l’orizzonte marino risultava bloccato da costruzioni provvisorie e stranamente approssimative.

Mio padre e mia madre erano venuti a aiutarmi con le mie tre figlie a Santa Severa: la mattina andavo a Roma e la sera tornavo da loro. Fino al 4 agosto. Quando scoppiò la bomba sul treno Italicus e allora dovetti andare a Bologna per qualche giorno. Fu in quei mesi “neri” che mio padre trovò la forza di scrivere per la prima volta (anche l’ultima?) qualcosa su Gadda, morto oramai da più di un anno.

Ho riletto spesso quel “Portolano”, cercando ogni volta di scoprire qualche frammento di un’amicizia straordinaria, nella quale affetto e stima si sono assimilati in un impasto non comune di rapporto umano. Dall’inizio alla fine. Lavoro, letteratura, scrittura, e vita. La vita difficile sotto il fascismo, la vita orrenda dei giorni di guerra, e quella di poi: quando Gadda lasciò Firenze e accolse la proposta romana di un lavoro sicuro, instaurando con mio padre un rapporto di lettere e incontri in alberghi della Capitale.

Tornato a Firenze dopo la breve “vacanza” a Santa Severa («eccomi in questo luogo romano di bagnature» aveva scritto confessando la sua voglia di fuga) mio padre riceve dopo qualche settimana la visita di Silvio Guarnieri, che a Pisa insegna letteratura italiana. Parlano della pubblicazione di opere di Arturo Loria e poi ecco l’apparizione o la visione che dir si voglia.

«Da Loria» scrive mio padre «il discorso salta a Gadda e io dico che non più tardi del giorno prima lo vidi attraversare piazza della Signoria a grandi falcate e agitando le braccia, il grosso corpo reso leggero da fantasmi interiori, un sorriso furbo e enigmatico sulle labbra. La provenienza era l’Antico Fattore; a notte la piazza parsimoniosamente illuminata prima del piazzamento dei riflettori turistici, era la piazza metafisica dell’arte moderna, con le statue dei maestri estatiche sugli zoccoli, e solo nelle serate di luna piena se ne ricostituiva l’unità, altrimenti interrotta da zone d’ombra più larghe di quelle evocate dai modesti riverberi. Nel mondo feltrino degli anni Trenta entrò anche Gadda con le sue idiosincrasie, le sue bordate da quaranta contro la stupidità e i mea culpa che subito faceva seguire agli insulti nello stesso modo che certi credenti amanti del peccato si precipitano nel confessionale dopo averlo commesso».

Eccolo ancora fisicamente presente nella visione, Carlo Emilio Gadda: «Si muoveva con una pesantezza improvvisamente agile e arzilla nella minuscola cinta provinciale, compassato e cerimonioso tra la mezza dozzina di ragazze in fiore; sbirciandole mormorava tra i denti, col tono melodrammatico con cui si annunciano calamità, che avremmo dovuto sposarne una, o prima o poi».

Qui si chiude il ricordo, l’apparizione e comincia una pagina che prelude a una domanda finale che deve esser rimasta per sempre, per mio padre, un tormento. Una domanda che esige anche la risposta a cosa sia stato il senso profondo di quel legame che a tanti anni di distanza per me rimane ancora insondabile, misterioso.

«Quarant’anni sono passati anche su via Mezzaterra dove fui ospite così spesso dei genitori di Silvio; anche sulle ragazze che Gadda temeva come il diavolo l’acquasanta; è perfino intervenuta la falce, Nora è morta un anno fa, la cognata di Silvio, una bellissima fanciulla, nel Trenta un’adolescente». Nora, ci appare proustianamente davanti nel momento in cui mio padre confessa il suo tormento: «Per molti, per tanta critica, Gadda è un argomento di questo dopoguerra; a chi lo conobbe assai più a monte, nelle estreme propaggini di un altro dopoguerra che mostrava sempre più di aver sconvolto e ricreato la sua natura, il suo esistere, le intese col prossimo, d’essere il motore della sua condizione umanale scoperte che si vanno compiendo sulla sua opera oggidì, strappano ai pionieri sorrisi poco caritatevoli di sufficienza. Eppure, bisogna adattarsi a considerarsi postumi degli amici oltreché di sè stessi».

Lui, Sandro, l’editore, il consigliere, il fratello, l’amico alle prese con i fantasmi del tempo perduto, alla ricerca di un tempo ritrovato per soddisfare il suo dubbio: Gadda lo capiranno meglio i nuovi amici (quelli del dopoguerra, quelli di Roma) e i vecchi amici sono oramai un “ingombro”, niente più? «Chi si dispone di fronte a Gadda come se tutto fosse cominciato trent’anni fa, è nato alla storia in quel momento, e niente è più difficile, del resto, di convincere la gente che il mondo esisteva anche prima. La domanda essenziale è: capiranno meglio i nuovi, i freschi, coloro che si pongono davanti al fenomeno liberi dai preconcetti di un passato cui non parteciparono? I vecchi amici, come i familiari, possono diventare l’ingombro più pesante».

Il dubbio non si scioglie se non in una disperata considerazione; Sandro, l’editore, l’amico sa che il tempo passato non tornerà e allora si sforza di sublimarlo, quel tempo, con un verbo sublime, “delibare”, che vuol dire assaggiare, degustare- «Si dice tante volte: vorrei arrivare per la prima volta da turista in questa città dove sono nato e dove abito da sempre, e sappiamo che è un desiderio irrealizzabile. Purtroppo, un Gadda inedito non potremo mai conoscerlo, noi che venimmo su con lui e ne delibammo parola per parola sul loro nascere scritti e idiosincrasie».

Ecco la storia dell’amicizia fra Sandro e Carlo Emilio. Una storia che ha sfidato il trascorrere degli anni, un legame che Gadda cercò di “onorare” fin che visse, con splendidi regali di nozze per me e mio fratello Giorgio, e con altri “ricordi” che ci sono immensamente cari.

L’affetto e la stima di mio padre per quel suo amico agile e arzillo eppure così solitario così preso dai suoi demoni, dai pensieri di una esistenza spesso disperata, nelle guerre, nella fame, nella morte dei suoi cari, rimane una pagina unica di storia della letteratura italiana. All’ombra di quel sodalizio nacquero riviste, capolavori del Novecento.

Alle volte mi chiedo se quelle riviste che sfidavano il Predappio furono pensate e costruite soprattutto per dare a lui, Carlo Emilio, la possibilità di pubblicare i suoi scritti. Tutto ruotava attorno al vecchio amico. Nei momenti di intimità, in cui mi capitò di sorprenderli, i due uomini si fingevano ragazzi birichini. Sorridevano perché si sentivano depositari di una storia segreta. Magari parlavano soltanto dei fulmini, che minacciavano l’esistenza di entrambi, ma ai quali essi erano convinti di aver scoperto un antidoto miracoloso.

Quale? Quello vero, non ce lo hanno mai raccontato. Né mio padre volle scriverne, quando nella brutta estate del 1974, fuggito da Santa Severa e ritornato a Firenze, rivide, come fosse ieri, Carlo Emilio Gadda attraversare la piazza metafisica dell’arte moderna.

 

*Per gentile concessione di Olschki Editore. Il testo di Sandra Bonsanti fa parte del libro”Carteggio 1930-1970″.

 

Nella foto il Gabinetto scientifico letterario Vieusseux che ha l’anno scorso ha festeggiato i 200 anni di vita, diretto da Alessandro Bonsanti.

 

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