I 150 anni dalla nascita della Comune di Parigi

22 Mar 2021

Fabrizio Tonello

Se siete a Parigi, quando uscite dalla metropolitana alla stazione di Anvers, girate a destra e percorrete i pochi metri di rue de Steinkerque, vi trovate ai piedi della scalinata bordata di prati che sale al Sacré-Coeur. Lì, in quella via un po’ larga che prende il nome di Place Saint-Pierre, iniziò la Comune di Parigi, un esperimento di autogoverno rivoluzionario che segnerà l’intera storia del XX secolo. Era il 18 marzo 1871, esattamente 150 anni fa.

La Comune sarà il modello per i rivoluzionari russi del 1917, per l’occupazione delle fabbriche italiane del 1919-20, per gli anarchici spagnoli nel 1936, per i comunisti cinesi che presero il potere nel 1948, per i contadini vietnamiti che sconfissero la potenza americana nel 1975. Dalle risaie della Cambogia alla giungla boliviana, ogni rivoluzionario del secolo scorso si è ispirato a quella città in armi, che restò libera esattamente 72 giorni.

La Comune è anche il modello della guerra civile “unilaterale”: una delle due parti si applica con coscienza e determinazione a massacrare la parte più debole, come poi avvenne in Indonesia nel 1964 e in Cile nel 1973. Ne parla ampiamente un prezioso libretto di Mariuccia Salvati, La Comune di Parigi, marzo-maggio 1871 (edizioni dell’Asino, 2021, € 10).

Dalle risaie della Cambogia alla giungla boliviana, ogni rivoluzionario del secolo scorso si è ispirato a quella città in armi, che restò libera esattamente 72 giorni

Quella mattina del 18 marzo 1871 le truppe del governo di Adolphe Thiers, che aveva firmato l’armistizio con i tedeschi dopo la sconfitta nella guerra del 1870, preparano un colpo di mano che ha come obiettivo i cannoni piazzati sulle colline da cui si domina la città: Montmartre e Belleville.

Montmartre, fino alla fine del Settecento, era fuori dalla città e anche di un bel pezzo. Se guardiamo una pianta disegnata dall’ingegnere del re Cassini nel 1747, vediamo una Parigi che a nord è delimitata grosso modo da quello che è oggi boulevard Haussmann, a ovest finisce in una spianata incolta corrispondente all’attuale Place de la Concorde e a sud termina all’Observatoire, nei pressi dell’attuale piazza Denfert-Rochereau. A est il Bois de Vincennes sembra lontano chilometri e chilometri.

Prendiamo una pianta della città nel 1836, dell’architetto Jaccubet: il centro è un labirinto di stradine, non c’è traccia dell’Opera e neppure dei Grands Boulevards. Il cimitero del Père-Lachaise è fuori dalla città e così pure i comuni di La Chapelle, Montmartre e Clichy. Solo dopo il 1851, il colpo di stato di Napoleone III (che fece scrivere a Marx Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte) arriva il prefetto Haussmann ad aprire grandi viali utili tanto per abbellire la capitale quanto per rendere più difficile la costruzione di barriccate.

A Montmartre la scalinata del Sacré-Coeur ancora non c’è. Non c’è neppure il Sacré-Coeur: lo sgorbio di chiesa che contende al Vittoriale di Roma il titolo di monumento più brutto del mondo sarà costruito solo negli anni successivi, proprio come espiazione voluta dai cattolici per i “sacrilegi”della Comune. Sarà iniziata nel 1875, ma per la consacrazione occorrerà attendere il 1919, dopo la vittoria francese nella prima Guerra Mondiale. La famosa Butte è una collina di vigne e stradine tortuose, che conducevano alla piazza del villaggio proprio in cima, quella che è adesso Place du Tertre.

La collina è ripida: per far scendere i cannoni occorrerebbero dei cavalli, ma soldati di Thiers hanno solo i loro fucili. Il colpo di mano inizialmente riesce (i militi della Guardia nazionale non hanno ordini precisi) e l’ottantottesimo reggimento si impadronisce delle batterie (a Belleville, invece, la Guardia nazionale si oppone e i soldati si ritirano). Per fare in fretta si comincia a far scendere i 227 cannoni dalla collina a mano; non è facile: ci vogliono corde, tavole, cunei. Un cannone ottocentesco è un mostro da centinaia di chili, sempre pronto a schiacciare chi disgraziatamente si ritrovi sulla sua strada. Lentamente, penosamente, alcune decine di cannoni vengono fatti scendere.

Nel frattempo, i parigini si sono radunati attorno ai soldati. Le parigine, soprattutto: le donne di Montmartre e dei quartieri vicini circondano i soldati, li beffeggiano, talvolta li insultano. I soldati sono giovani e non hanno ordine di sparare sulla folla: devono soltanto recuperare i cannoni e rispondere al fuoco se attaccati. Ma le rivoluzioni non iniziano mai con due eserciti ben schierati in campo aperto, ciascuno con le mostrine ben cucite sulle uniformi e le bandiere su aste dorate. La rivoluzione avvolge l’avversario, gli fa dubitare di se stesso, lo mette di fronte a scelte impossibili. Si deve sparare sulle vecchie che sputano, sulle sartine che urlano, sulle ragazze sfrontate che si alzano le gonne? Quando il generale Lecomte dà ordine di farlo è troppo tardi.

La rivoluzione avvolge l’avversario, gli fa dubitare di se stesso, lo mette di fronte a scelte impossibili

L’88° fanteria si ritrova accerchiato dal popolo di Montmartre e dalla Guardia nazionale: piuttosto che rischiare un massacro i soldati levano il calcio dei fucili in aria, segno che non faranno resistenza. Gli ufficiali che li insultano e ordinano di battersi vengono rovesciati da cavallo, i berretti volano in aria, ci si abbraccia attorno ai cannoni. La Guardia nazionale parigina, i soldati e i popolani si abbracciano.

Nel pomeriggio, i generali Clément Thomas e Lecomte, arrestati, vengono fucilati in una caserma della Guardia nazionale in rue des Rosiers: un episodio che trasformerà una rivolta fino a quel momento pacifica in una guerra di classe all’ultimo sangue.

Siamo sempre al 18 marzo ma ci spostiamo ora al Quai d’Orsay, vicino agli Invalides, in quei giorni la sede provvisoria del governo. Quando giunge notizia del fallimento del colpo di mano contro i cannoni di Montmartre, Thiers non perde tempo: dopo un rapido consiglio dei ministri fugge a Versailles. Fuga è la parola esatta. In carrozza, protetto da una pattuglia di cavalleggeri, il primo ministro terrorizzato non smette di incitare la scorta ad andare più veloce: “Saremo al sicuro solo al di là di Auteil ” grida al cocchiere.

Se i ministri temono la vendetta popolare, questo non impedisce loro di dare ordine alla burocrazia di abbandonare la capitale: è una mossa per costringere il Comitato centrale a prendere il potere, una strategia per fare terra bruciata attorno a Parigi, dichiarare ribelle l’intera città, preparare il bagno di sangue. La mossa sarà così efficace da far pensare a molti storici a un deliberato machiavellismo di Thiers. È più probabile che paura e volontà di punire i ribelli si siano intrecciate in un concorso di circostanze: quel pomeriggio del 18 marzo lo Stato si dissolve, costringendo i comunardi a sostituirsi al governo.

Mentre le truppe ancora fedeli escono dalla città e i dirigenti dei ministeri caricano sulle carrozze i dossier, i fondi riservati, la famiglia e le amanti, i comunardi si riuniscono nella confusione. È una riunione bizzarra, in cui la mancanza di notizie su ciò che effettivamente succede in città si mescola alla preoccupazione di lasciare aperta una strada alla trattativa. È solo a tarda sera, dopo la conferma dell’abbandono di Parigi da parte di Thiers, che il Comitato centrale prende possesso dell’Hôtel de Ville, sloggiandone il sindaco Jules Ferry e issando la bandiera rossa. Come scrive lo storico Michel Winock, esso “si trasforma in un potere di fatto, chiamato a farsi carico di una situazione che non ha provocato, né creato”.

I tentativi di conciliazione del 18 marzo e dei giorni successivi hanno come protagonisti i sindaci dei venti arrondissement, le circoscrizioni. Sono dei moderati e vorrebbero garantita l’autonomia municipale; la Guardia nazionale conserverebbe le sue armi ma l’unico compito sarebbe il mantenimento dell’ordine in città. In cambio, sono disposti ad accettare l’autorità del governo. Il sindaco di Montmartre, un energico dottore di nome Georges Clémenceau, si distingue nel tentativo. Quarantasette anni dopo sarà lui a guidare la Francia alla rivincita sui tedeschi nella prima Guerra Mondiale.

Il 26 marzo viene proclamata la Comune, che diventa immediatamente il simbolo di tutto ciò che la borghesia francese odia: le folle, gli attentati al diritto di proprietà, i tumulti di piazza, la sovversione

Ogni accordo è però impossibile. Il 26 marzo viene proclamata la Comune, che diventa immediatamente il simbolo di tutto ciò che la borghesia francese odia: le folle, gli attentati al diritto di proprietà, i tumulti di piazza, la sovversione. Come abbiamo già detto, a Versailles l’Assemblea nazionale è dominata dai rappresentanti della Francia rurale: notabili che con il secondo impero si sono arricchiti, o, comunque, hanno dei campi, delle case, una posizione da difendere. Hanno accettato la repubblica per avere la pace, accetterebbero i prussiani in casa piuttosto che finire sotto il dominio della canaglia.  A Londra, intanto, è un tedesco che vive più o meno in miseria, a prendere le parti dei ribelli: si chiama Karl Marx.

Sarà la relazione di Marx all’Internazionale, il 31 maggio 1871, a consacrare la Comune come simbolo del movimento socialista per un intero secolo; in realtà il programma iniziale dei comunardi era modesto: libertà di stampa, libertà di associazione, autogoverno locale. Gli unici provvedimenti di requisizione o di redistribuzione sono quelli imposti dalla guerra: Varlin, uno dei dirigenti della Comune non osa aprire i forzieri della Banca di Francia e chiede un prestito ai banchieri Rotschild, che se la caveranno con appena 500.000 franchi. In confronto a ciò che avevano fatto i giacobini nel 1793, i comunardi sono dei chierichetti. Uno storico scriverà più tardi: sono uomini che in fondo hanno “Un orrore superstizioso dell’illegalità”.

Anche dei bravi ragazzi, però, fanno paura se sono duecentomila e armati. Il vero punto del contendere, in quei giorni, è la richiesta della Guardia nazionale parigina di conservare le proprie armi e di avere il diritto di eleggere i propri ufficiali, compreso il comandante. Questo è intollerabile per la repubblica conservatrice che si è installata a Versailles.

È la Francia rurale che vuole la guerra, non la Comune. I notabili di provincia voglion dare un esempio sterminando fisicamente la plebaglia parigina. In aprile, il Journal de Versailles incita il governo: “Fate ciò che i grandi popoli energici farebbero nel caso vostro: niente prigionieri!”. In maggio, alla fine della settimana di sangue nella quale migliaia di comunardi sono massacrati, lo scrittore Edmond de Goncourt commenta con soddisfazione: “I salassi come questo, uccidendo la parte battagliera di una popolazione, rinviano di un’intera generazione la rivoluzione successiva. Alla vecchia società si profilano vent’anni di riposo”.

Quest’odio durerà. L’antagonismo fra la provincia e la capitale, tra l’ordine e la rivoluzione, tra la Vandea e i giacobini, tra le masse di cittadini sempre pronti a manifestare e i milioni di contadini, di artigiani, di commercianti, di notabili che vorrebbero essere lasciati in pace, qualunque sia il governo in carica, esiste tutt’ora, come fosse iscritto nel codice genetico della Francia. Dopo la sconfitta della Comune, il giovanissimo Arthur Rimbaud scrisse: “La provincia, dove ci si nutre di farinacei e di mota (…) io non la rimpiango”. E piuttosto di restarci si autoesilierà a Londra e a Bruxelles, poi a Vienna, a Giava, a Cipro e infine in Etiopia, dove resterà dieci anni, tornando in Francia solo per morire.

Marx, le cui uniche informazioni sugli avvenimenti erano quelle dei giornali inglesi, scrisse che la Comune “non fu una rivoluzione contro questa o quella forma di potere di Stato legittimista, costituzionale, repubblicano o imperiale. Fu una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo aborto soprannaturale della società: fu la ripresa da parte del popolo e per il popolo della propria vita sociale. Non fu una rivoluzione fatta per trasferire questo potere da una frazione della classe dominante a un’altra, ma una rivoluzione per spezzare questa stessa orribile macchina del dominio di classe”.

Sempre nell’indirizzo ai membri dell’Internazionale, Marx continuò: “Essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta di classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro”

Questa interpretazione oggi ci appare esagerata. La Comune non era una dittatura del proletariato e nessuno parlava di sterminare i borghesi, anche se ovviamente i “ricchi”, gli “accaparratori” e il clero erano odiati; il Comitato centrale dei federati era composto di personaggi tutt’altro che estremisti, che indissero immediatamente libere elezioni. Gli atti di violenza, come la fucilazione di ostaggi, avvennero nel contesto di una guerra civile in cui il governo di Versailles era stato il primo a fucilare senza processo ogni comunardo arrestato.

Un falegname del faubourg Saint-Antoine, Desiré Lapie, un tipico comunardo, riassumeva il programma in quattro punti: “Vogliamo il diritto di nominare i nostri consigli comunali, i nostri ufficiali militari, la soppressione dell’esercito permanente, la separazione della Chiesa e dello Stato senza però impedire la libertà delle coscienze”. Gli insorti sono fortemente anticlericali (occorre “impedire con tutti i mezzi il ritorno del gesuitismo, perché nei conventi conoscono solo il furto e la prostituzione” scriveva ancora Lapie nella stessa lettera alla sorella) ma intensamente patrioti: alle origini della rottura con Versailles sta forse più la questione della resa ai tedeschi che la questione di classe; l’ostilità nei confronti del padronato è probabilmente minore di quella nei confronti del clero. La Comune è più una repubblica assediata che un soviet, assomiglia molto di più alla Parigi di Robespierre che non a un’ideale repubblica operaia.

Il 18 marzo fu una reazione a un tentativo di disarmare la città, non una rivolta programmata in anticipo

È molto dubbio, inoltre, che gli operai parigini volessero davvero la guerra contro il nemico di classe. Come abbiamo visto, il 18 marzo fu una reazione a un tentativo di disarmare la città, non una rivolta programmata in anticipo. Fu Thiers a impedire ogni accordo, a esigere la repressione: i comunardi non potevano che battersi per sopravvivere e il loro programma era tanto poco socialista che non aprirono nemmeno i forzieri della Banca di Francia, come si è detto.

Il mito della Comune è arrivato ingigantito fino a noi perché le forze conservatrici avevano in fondo interesse ad alimentarlo: lo spauracchio di una città in fiamme, in preda a bande armate, è servito per un secolo a giustificare la repressione di ogni tumulto di piazza. Nello stesso tempo, la Comune è diventata il simbolo di tutte le speranze delle classi senza potere, il sogno di tutti i diseredati: essa era la prova che un mondo senza gerarchie e senza padroni era possibile. E questa eredità non svanirà neppure in futuro.

ilbolive.unidp.it , 18 marzo 2021

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