IL GIORNO DELLA NON VERITÀ

14 Mar 2021

Ma in fondo qual è la vera domanda, Sandra? Solo una? Sì, una. Direi, almeno per me: “Cosa abbiamo fatto dell’Italia libera che ci è stata consegnata? È a questo che penso la sera, prima di andare a dormire. Immagino quel momento: Sandra Bonsanti nella sua casa in cima alle scale ripide, sola, la sera, prima di andare a dormire. I taccuini di Gadda, le foto di Pertini. I fiori sul balcone, i suoi quaderni con le date e i luoghi in copertina. Ne ha decine e decine. Quello verde di carta di Firenze che aveva in America quando andò da Sindona. Quello a fiori che inaugurò i lavori della commissione Anselmi.

Uno lo tiene sempre sul comodino accanto al letto. “9.5.78 Via Caetani”, c’è scritto sopra. Quando lo apri, la prima frase annotata con la sua calligrafia chiara e rotonda è questa: “Pare che sia Moro, dice un vicequestore”. La penso che dà un’ultima occhiata al giardino dei vicini, si fa quella domanda, spegne le luci. C’è una generazione in questo Paese che ha preso l’Italia da chi l’ha liberata e l’ha portata fino a qui. Proprio con un gesto delle mani, una torsione del busto. Sandra era bambina il giorno della Liberazione di Firenze dai nazifascisti. Era piccola, ma ricorda bene: quel soldato che la strappò dalle braccia della madre, quella paura.

È grande, oggi. Una maestra di 83 anni, cinquanta dei quali trascorsi a raccontare l’Italia: dalla fine degli anni Sessanta, un taccuino alla volta, fino a ora. «Sono solo una cronista», dice sempre. Certo. Una cronista. Quarant’ anni fa, 17 marzo 1981, la scoperta degli elenchi della loggia massonica P2 nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi.

Da allora ogni giorno ha seguito le indagini, le inchieste, i lavori della commissione Anselmi. Quante volte in redazione se c’era un dubbio, prima di Internet, Sandra sapeva. «Ora controllo sui quaderni» diceva. Il libro che pubblica con Chiarelettere, Colpevoli, scritto con Stefania Limiti, è una Bibbia per chi voglia conoscere la storia d’Italia. Quella del presente. La storia di adesso. Perché – è questo il distico che apre il libro – “sono ancora tutti lì”.

Non è cambiato, il Sistema. Non sono stati nominati né puniti, i colpevoli. Decine di persone – politici, magistrati, cittadini vittime delle stragi – sono morte, ma non ha pagato chi doveva pagare, anzi: ha replicato sottotraccia una rete di ricatti fondati sui segreti, di mano in mano. «E se non fai luce non ci può essere una democrazia sana. Non ci sarà mai vera libertà».

Cosa manca da raccontare, del passato e del presente? «Questo: manca ancora una storia politica della Prima Repubblica che affronti anche il potere segreto, le responsabilità dei vari personaggi di primo piano che lo hanno controllato e lasciato in dote a chi detiene oggi le leve. Ti faccio un esempio: sarebbe importante studiare il tragitto del presidenzialismo, che è stato il sogno dei piduisti, ma anche il sogno socialista, di importazione americana. E da lì in avanti tutte le proposte che inseguono l’obiettivo dell’uomo forte, solo al comando, magari con la semplificazione e riduzione del Parlamento: non ti dice niente? In origine le formazioni fasciste furono messe fuori dall’arco costituzionale ma hanno trovato, col tempo, nuovi e a volte imprevedibili alleati».

Come si fa a spiegare a un ragazzo del 2021 cosa è successo quarant’ anni fa e perché sia importante oggi? «Rovescia la domanda. Come si fa a chiedere oblio. Come si fa a dimenticare senza che sia fatta giustizia. Se ciascuno avesse fatto la sua parte di uomo e donna delle istituzioni, negli anni, quella catena di omertà avrebbe potuto sgretolarsi. Avremmo davvero combattuto le mafie, le massonerie, i fascismi. Possiamo ancora farlo. Come mi disse Tina Anselmi una delle ultime volte: “Sono ancora tutti qui”. La memoria è sacra. Senza memoria siamo perduti, in balìa di chi ci manovra e senz’ armi per difenderci».

Da dove partiamo? «Bisogna per forza ripartire dai fatti. Quella storia è come se fosse evaporata. Non ci abbiamo fatto i conti. Ci torna addosso. Non va bene dire: ci sono stati i fedeli e i poteri deviati. Non è vero, il confine non c’è. C’è il piduismo perenne di uno Stato infedele. Quel sistema è un’architettura su cui ancora oggi si costruisce il potere. Finché tolleriamo che ci siano spazi di segreto… la democrazia ha bisogno della luce del sole per recuperare l’energia. Giovanni Ferrara, che è stato un repubblicano vero, queste cose le sapeva, le sentiva e veniva avversato in tutti i modi: quando c’è qualcosa che non si capisce vuol dire che lì dentro c’è una massoneria che sta lavorando».

Massone è diventato un attributo, in politica, sinonimo di sospetto. Molto in voga anche di recente. «Ho imparato negli anni che quando si dice quasi sempre c’è qualcosa di vero, o almeno qualcosa di opaco. Certo non sono più piduisti. Ma basta vedere cosa sta succedendo in Calabria, dove scoprono momento dopo momento i collegamenti tra le cosche e la massoneria. Le massonerie hanno avuto una grande occasione di dimostrarsi democratiche. L’hanno persa».

Entriamo nelle cose. La P2 era una loggia massonica segreta. Il 17 marzo 1981 fu scoperto un elenco di 962 nomi: 44 parlamentari, 2 ministri, 22 generali dell’esercito, 8 ammiragli, magistrati, funzionari pubblici, giornalisti, imprenditori. C’era Silvio Berlusconi, nell’elenco. Licio Gelli era il capo, ma lo era davvero? «La lista era incompleta. I piduisti erano molti di più, e no, Gelli non era il capo. Era un capo».

Cosa volevano? «Cambiare la struttura del potere in senso autoritario. Eliminare chiunque si opponesse al loro disegno. Hanno seminato il loro cammino di morti. Sono stati gli anni in cui sono stati uccisi Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa,poco dopo Roberto Calvi. Gli anni delle stragi».

Chi era il capo? «Una volta Luigi Bianchi, giornalista che era alla guida dell’ufficio romano del Corriere della Sera, riferì di certe serate di cui gli parlava la vedova Angiolillo. “C’erano Tassan Din, Calvi, Ortolani, Gelli, Andreotti”. Aveva i brividi. Lasciò il Corriere poco dopo».

Citi molto nel tuo racconto i diari di Giulio Andreotti. «Sì, sono una fonte inesauribile della sua – diciamo così – ambiguità. Andreotti aveva i suoi demoni: Michele Sindona, Salvo Lima. Non riusciva a controllarli. Buscetta disse: l’omicidio di Lima è stato un’ingiuria a Andreotti. Intendeva: un messaggio per lui, era la mafia che comandava. Diceva: lo Stato è bravo a fare i funerali di Stato. Come a dire: serve a quello».

Racconti di quando in una passeggiata in piazza Navona Craxi ti disse che Gelli era al Viminale, nei giorni del sequestro Moro «Di più. Le ricerche per salvarlo erano affidate a un gruppo di specialisti messo su da Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno, riservato agli appartenenti alla P2. Erano tutti piduisti. Moro era doppiamente prigioniero. Delle Br e del nostro Stato in quanto P2. Il sequestro Moro è il punto di svolta del tempo che ancora viviamo. Per come è avvenuto, la diretta. Bettino Craxi che mi dice che Gelli era in quelle stanze. Che era inutile cercarlo attraverso collegamenti con gruppi della sinistra parlamentare. Ci fu un tentativo – ne fa fede la giudice Elisabetta Cesqui – di andare a vedere cosa stava succedendo durante il rapimento di Moro attorno ad Arezzo, dove viveva Gelli. Banca Etruria era la cassaforte della P2. C’era un grande movimento di denaro verso i neofascisti. Al Viminale c’era un importante uomo dei Servizi, Umberto Federico d’Amato, negli stessi anni di Cossiga. Si diceva che fosse il referente della Cia in Italia. Poi era anche il critico gastronomico dell’Espresso, capisci? Era così difficile orientarsi. Bisognava solo scrivere, prendere nota. Poi col tempo i fili si legano».

Col tempo cosa hai capito? «Che lo Stato non voleva che Moro fosse trovato perché era contrario a quel Sistema. Era utile a tanti non trovarlo. In Italia e all’estero».

Hai citato Elisabetta Cesqui, parli moltissimo di Tina Anselmi. Sono state due donne a indagare senza paura. «Sì, non si sono fatte ingannare né fermare. Cesqui, allieva di Stefano Rodotà, è l’unico giudice istruttore che abbia fatto una vera inchiesta sulla P2. Tina era una partigiana, una donna semplice di origini, fortissima».

Racconti dei risotti al radicchio trevigiano che ha insegnato a cucinare alle tue figlie, e di quando durante il sequestro faceva la spola fra la Dc e la famiglia Moro. «Tina ebbe un compito molto istituzionale, teneva i rapporti con la famiglia e non era facile. Conosceva Moro molto bene. Aveva avuto da lui un ultimo messaggio il giorno prima del rapimento, a proposito dei comunisti che non avrebbero appoggiato il governo che doveva nascere. Le scriveva “Cara signorina, qui non hanno capito che siamo sull’orlo di un abisso”. La chiamava Signorina. Tina ha fatto il massimo che ha potuto, tenendo conto che era un’esponente della Dc. Ha puntato tutto sulla Relazione: ancora riletta oggi è piena di spunti e di verità».

Era anche una militante di partito, intendi. «Sì, lo era. Ricordo del giorno in cui mi fermai a salutare Giovanni Falcone che mangiava un gelato da Giolitti, avevo appena parlato con Tina che mi aveva detto: vorrebbe diventare ministro degli Interni ma noi quell’incarico non lo abbiamo mai dato a nessuno. Fu così anche col generale Dalla Chiesa: La Dc il Viminale non lo lasciava. C’erano delle ragioni molto serie per non abbandonare quella postazione».

Anche Dalla Chiesa si era opposto al Sistema. «Sì. E il Sistema decise di liberarsi di tutti coloro che avrebbero potuto aprire una breccia nel segreto, indebolire la rete eversiva. Secondo il pg di Palermo Roberto Scarpinato, l’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò da Roma da Francesco Cosentino, che era segretario generale della Camera, ruolo altissimo, istituzionale, ereditato dal padre. Lo si vede nelle foto di De Nicola che firma la Costituzione. Fa impressione. Era uomo di Andreotti ed era nella P2. Anche sull’uccisione di Piersanti Mattarella, c’è molto da sapere. Sono tante le tragedie rimaste oscure».

Tu, Sandra, hai ricevuto tre lettere da Sindona, sei nominata con fastidio nei diari di Andreotti, Cossiga ha avuto parole feroci sul tuo conto. Hai mai avuto paura? «Solo una volta. Sulle scale di piazza del Gesù, Evangelisti scendendo mi disse: “Che te se deve fa’, te se deve sparà”? Gli risposi: non è la prima volta che risolvete così i vostri problemi. Ma poi non ci ho voluto più pensare».

Il libro è anche un archivio enorme di fonti. C’è un sistema di note a margine imponente, ogni cosa è documentata. «Di questo devo rendere grazie a Stefania Limiti, preparatissima e appassionata, che sono contenta di aver incontrato: abbiamo un giudizio comune su quello che è stato».

Cosa pensi quando vedi che la politica italiana è ancora figlia, in larghissima parte, della tradizione democratico cristiana? «Che la Dc è stata una grande casa dove hanno trovato posto tanti, anche persone di grande valore. E sì, gli eredi di quella tradizione ancora governano. Ma se la Dc fosse stata casa mia non avrei scelto Andreotti come padre. Piuttosto Bachelet».

Perché hai intitolato il libro Colpevoli? «Perché a volerlo si sapeva cosa stava accadendo. C’erano la commissione Anselmi, il lavoro di indagine di Cesqui. C’è questo professore di scuola, Guido Lorenzon, che ha passato la vita a testimoniare sulla strage di piazza Fontana: non gli credevano. Chi ha provato a dire la verità è finito eroe o martire, a volte tutte e due le cose. Bisognava essere supereroi per affrontare la battaglia».

Chi l’ha vinta? «Mah. Non lo so. Diciamo che non è finita. Se riusciremo a tenere viva questa storia e la spiegheremo ai giovani, allora c’è possibilità. Sono loro che devono prendere il testimone, ora. Sul buio, volere la luce».

Il Venerdì di Repubblica, 12 marzo 2021

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