Dopo settimane di fantasiose definizioni (governo del Presidente, di salute pubblica, di unità nazionale, dei migliori), abbiamo un nuovo esecutivo: nuovo perché appena insediato e nuovo perché un governo con praticamente tutti dentro non l’avevamo ancora visto. Abbiamo chiesto lumi a Gustavo Zagrebelsky .
Professore, che giudizio dà di questo inedito scenario? Una premessa: le istituzioni non sono un terrain vague, una landa desolata aperta alle scorribande spregiudicate di predoni politici. Nella parola c’è la radice “st”, come nella parola “stato”, che, nelle lingue indoeuropee, allude alla stabilità, accettata per forza o alimentata dalla fiducia reciproca, a seconda dei casi. Le istituzioni servono a questo: abbassare la conflittualità, garantire la durata e allontanare quella che una volta si chiamava stasis, cioè il blocco, l’implosione. La conflittualità, in una società libera, è inevitabile, perfino benefica, ma ha cittadinanza nella dimensione pre-istituzionale.
Vuol dire che non si può litigare al governo? Proprio così. Ci si può confrontare, tanto più nei governi di coalizione. I partiti politici sono liberi nella sfera pre-istituzionale, ma quando entrano nel governo ad esempio, sono tenuti ad avere comportamenti istituzionali, nel senso che ho detto. Governare implica assunzione di limiti e responsabilità comuni. Non si può stare nella maggioranza strumentalmente, per approfittare della posizione acquisita e sabotare l’istituzione di cui si fa parte. Chi lo fa – ne abbiamo avuto e probabilmente ne avremo esempi – è un devastatore istituzionale.
Il governo attuale è sostenuto da una amplissima maggioranza: è una condizione di forza? La forza d’un governo dipende dalla coesione. Se in tanti entrano al governo senza rinunciare alle loro scorribande e intendono compierle a partire da lì per acquisire potere e consenso e promuovere a ogni costo gli interessi particolari di cui sono mandatari, il governo nasce tarlato fin dall’inizio. Estensione ed efficacia sono due cose diverse. Possono anzi essere inversamente proporzionali. È piuttosto stupefacente che, nella formazione dell’attuale maggioranza, nessuno abbia detto a qualcuno, in nome della coesione: no, tu no.
Lei crede all’idea di un governo “tecnico” che prende decisioni non politiche, neutre? La caratteristica di questo governo è data dal fatto che a un certo punto, per uscire da una situazione di stallo, viene chiamato un soggetto autorevole ed estraneo al sistema dei partiti. Draghi è il deus ex machina della situazione: nel teatro classico, quando non si riusciva a sciogliere un intreccio complicato (nel caso nostro, lo stallo in Parlamento), arrivava sulla scena – spesso calato dall’alto con una “macchina”, talora in un cestino – un essere sovrumano – Zeus, Atena, Apollo – che risolveva la situazione.
Questo risolutore lo possiamo dire un tecnico? Chiunque si affaccia alle soglie della politica, se non vuole fallire miseramente, deve saperne di tre “etiche”, tutte e tre altamente politiche: l’etica delle possibilità, l’etica delle convinzioni e l’etica delle responsabilità. Deve sapere, cioè, delle condizioni in cui opera; deve avere dei principi-guida, cioè valori ai quali essere fedele; deve essere consapevole delle conseguenze del suo agire. La prima etica è anche tecnica; la seconda è essenzialmente morale; la terza è prudenziale. L’insieme è la politica, quella che gli Antichi già denominavano téchne politiké. Separare i due aspetti è impossibile. A meno che con “tecnico” si voglia dire “non partitico” e, in certi contesti, “non “politicante”. Quando i partiti sono degradati e i politici che provengono dai partiti sono visti come politicanti, i tecnici appaiono una risorsa. Ma dire che non sono anch’ essi “politici” è una sciocchezza. Spesso sono iper-politici e, proprio per questo, sono chiamati a governare. Tra Ciampi e Monti sono passati vent’ anni, tra Monti e Draghi dieci: la scorciatoia dell’esecutivo svincolato dal consenso ha cicli sempre più brevi. Forse sta diventando una condizione strutturale della vita politica nel nostro Paese. Di tempo in tempo, il sistema dei partiti entra in fase di stallo e ha bisogno di una certa pausa per sbloccarsi. Gli esecutivi “tecnici” sembra che servano a ciò, soprattutto quando grandi minacce gravano sulla vita collettiva, minacce di natura finanziaria, sociale, sanitaria, eccetera.
La classe dirigente “politica” si sottrae volentieri alle responsabilità: non capisce il pericolo di auto-delegittimarsi? Effettivamente, può essere come lei dice. Le grandi e urgenti difficoltà possono unire e possono dividere. Non è vero che sempre uniscono. Dipende dall’etica pubblica. Dove esiste uno spirito di comunità – ci si salva insieme o si perisce insieme – è possibile che uniscano. Dove questo spirito non esiste o è insufficiente – ed è forse il caso nostro – le difficoltà disuniscono e ciascuno cerca il proprio interesse particolare a scapito di quello generale. Da questo punto di vista, i governi “tecnici”, nel senso anzidetto, possono anche essere visti come conseguenza di carenza rispetto allo spirito di comunità nazionale. Si è detto: l’arrivo di un’élite è una reazione all’uno vale uno.
Ma l’uno vale uno (la sovranità appartiene al popolo) è il principio su cui si fonda la democrazia. Questione complessa. Non credo che possiamo cavarcela con qualche battuta. Posso dire così: nel governo democratico, certamente uno vale uno nelle sue radici, cioè nella partecipazione politica: diritto di voto, di opinione, di associazione in partiti e movimenti, eccetera. Ma, quando si tratta di rendere concreta, continuiamo nella metafora, la linfa che proviene dalle radici, cioè quando si tratta di governare, siamo sicuri che tutti abbiano le qualità di cui dicevo sopra per essere buoni politici? Si dirà: ma non siamo affatto sicuri che le abbiano coloro che si candidano a governare. Certo, non c’è alcuna sicurezza. L’esperienza, anzi, conferma. In democrazia non esistono a priori “migliori” (e quindi “peggiori”). Nessuno può autoinvestirsi di quella qualifica. Sarebbe autocrazia e non democrazia. Però, è anche vero che non tutti sono ugualmente adatti a funzioni di governo o a partecipare direttamente alle decisioni. Ci immaginiamo l’inferno che ne deriverebbe? La democrazia rappresentativa nasce da qui, da una sorta di divisione del lavoro. L’espressione “uno vale uno”, per dire in sintesi, coglie l’essenza della democrazia, ma si ferma alle soglie del governo. Lì, vale di più chi sa di politica rispetto a chi non ne sa niente. Qui c’è il grande rischio della democrazia: che chiunque si ritenga capace di governare e che i meccanismi di selezione, che sono nelle mani degli elettori e dei partiti (sistemi elettorali permettendo), non svolgano la scrematura necessaria per non alimentare la disillusione e il disincanto democratico.
Lei ha scritto su Repubblica che il cambio di paradigma da “democrazia dal basso a democrazia dall’alto” non è buona cosa per la democrazia ma è ottima per l’oligarchia. Ciò che trovo preoccupante non è la nascita del Governo Draghi: date le condizioni, il Presidente della Repubblica che cos’ altro avrebbe potuto fare? Ciò che mi pare preoccupante è il coro di coloro che si rallegrano per il futuro: finalmente via “le scorie della costituzione materiale”. Così, quella che è stata un’operazione d’emergenza viene ad assumere il valore di paradigma per il futuro. Il che mi pare un’operazione che incide sullo spirito pubblico in senso più oligarchico che democratico.
Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2021
Dare il titolo giusto a un’ intervista non è mai cosa facile. Se le domande sono ben poste, infatti, la pluralità dei temi trattati o dei diversi aspetti di un medesimo argomento ( è il caso di questa intervista che ruota attorno al tema dell’ inedito ‘ governo di tutti ‘ ) rende oggettivamente difficile sintetizzare in un titolo l’ inevitabile complessità delle risposte. Ancora più difficile, poi, se l’intervistato è un uomo di così profonda cultura, come Gustavo Zagrebelsky, capace di spaziare con estrema naturalezza dal diritto costituzionale alla politica, dalle religioni alla filosofia, dalla letteratura al teatro, alla poesia, alla storia dell’arte e a tutto ciò che – parafrasando la risposta n.7 di questa intervista – può aiutare la formazione e il radicamento , in seno a una comunità statuale ( o, più semplicemente, umana ), di una vera e unificante etica pubblica.
Questa volta, però, il titolo appare esageratamente riduttivo del pensiero del professore e, quindi, fuorviante per chi non ha la pazienza di leggere con attenzione il testo dell’intervista. Che non ha il suo ‘ focus ‘ nella debolezza di un governo cui partecipano forze politiche tanto diverse da essere, in condizioni normali ( o, comunque, non straordinarie e/o di emergenza come le attuali ) tra di loro antitetiche, ma nella debolezza o, meglio, nella fragilità della democrazia rappresentativa che è minacciata dallo scarso amore per le istituzioni e dal disimpegno partecipativo dei cittadini.
Zagrebelsky inquadra, infatti, l’attuale crisi delle istituzioni – che in una democrazia rappresentativa non possono essere guidate da chi ignora le condizioni in cui opera (etica della possibilità ), da chi non crede in un sistema di valori e/o principi-guida ( etica delle convinzioni ) e da chi non è consapevole delle conseguenze del suo agire ( etica della responsabilità ) – in quella che lui chiama la ‘ dimensione pre-istituzionale ‘, l’unica in cui “ la conflittualità ha cittadinanza “.
E’ qui, in questo laboratorio aperto a tutti i cittadini che intendono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, che può esprimersi la sovranità popolare in tutta la sua libertà e, quindi, in tutta la sua ‘ benefica conflittualità ‘.
Ed è purtroppo questo spazio – dove dovrebbero lealmente confrontarsi e anche scontrarsi tutte le idee e tutti gli interessi particolari degli abitanti della polis, in vista di un superiore interesse generale da affidare , pro-tempore, alla cura e all’amministrazione di chi ‘ sa delle tre etiche – che è da troppo tempo vuoto, desolatamente disabitato. Spopolato, appunto, del suo popolo che non si è soltanto disaffezionato dal partecipare alla politica dal basso, quella che si può fare solo nelle associazioni-laboratorio pensate dai nostri padri costituenti ( e di cui gli attuali partiti – oligarchici e autoreferenziali – sono solo una volgare caricatura ) ma che – cosa ben più grave – non coltiva più quello “ spirito di comunità “ , fonte e obiettivo, allo stesso tempo, di quell’etica pubblica fatta di passione civile e di quotidiano impegno nell’ “ adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale “.
“ La democrazia rappresentativa “ – ci ricorda Zagrebelsky – “ nasce da una sorta di divisione del lavoro “ che affida le funzioni decisionali ad alcuni ma che vive della ‘ linfa vitale ‘ che ai rappresentanti può giungere solo dalla partecipazione, generosa e creativa, di tutti i cittadini. Più che sul principio-slogan dell’ “uno vale uno “ ( diventata la bandiera anti-politica del plebiscitarismo populista e sovranista ) è sulla necessità di recuperare quello “ spirito di comunità “ che insiste Zagrebelsky, quando ci invita a non perderci dietro inutili disquisizioni sul governo dei ‘ migliori ‘ o dei ‘ peggiori ‘, ma a rimboccarci le maniche e ad assumerci le nostre responsabilità di cittadini consapevoli e costruttivamente critici.
Giovanni De Stefanis, Leg Napoli
Al prof. Gustavo Zagrebelsky (lettera aperta alla sottoscrizione di tutti)
Il 19 febbraio 2021 un gruppo di magistrati in una lettera al Presidente Mattarella, aperta a tutti, premesso che “lo scandalo continua a imperversare e, lungi dal placarsi, è costantemente alimentato dall’uscita di nuove e allarmanti notizie che rendono il quadro complessivo sempre più inquietante e inaccettabile”, chiede al Presidente “di tornare a intervenire con la sua autorevolezza, per avviare finalmente l’ormai non più differibile azione di recupero della fiducia di cui l’Ordine Giudiziario e la gran parte dei Magistrati meritano di godere, e della credibilità della Giurisdizione, baluardo prezioso ed essenziale dello Stato di diritto delineato dai nostri Costituenti.”
L’autorevolezza del Presidente Mattarella: nel febbraio 2015 egli ignorò la lettera e un libro in cui si denunciavano mille illegalità delle Autorità, con ciò offendendo non il mittente di quella lettera, ma il popolo italiano, offuscando ulteriormente l’immagine della Giurisdizione. Lungi da lui, docente di diritto, l’idea che la difesa dei giudici che abbiano violato la Costituzione possa costituire illecito (Cost., art. 90).
Il recupero della fiducia dell’Ordine Giudiziario e della credibilità della Giurisdizione: si ottengono con il rigoroso rispetto della Costituzione. Il Presidente Ciampi, da un lato, tuonava “La giustizia è valore fondante della nostra democrazia”, dall’altro, difendeva i magistrati benevoli nei confronti delle illegalità delle Ferrovie; le sentenze Cass. civ. 15293/2001 e 4499/2007 cancellarono diritti dei lavoratori violando più norme, ordinarie e costituzionali, che un diligente laureando in legge può rilevare; esempio di chiusura di un circuito di legalizzazione dell’arbitrio, tra i tanti indicati dal governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi. In altro ambito, la sentenza S.U. civ. 15275/2017, rigettando il ricorso del CSM, consentì finalmente, dopo nove anni di nomine e ricorsi (!), la nomina definitiva di un Procuratore della Repubblica.
Costituzione, art. 54: non essendo previsti reati che possa commettere il magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, solo l’attuazione dell’art. 54 potrebbe vincere l’inerzia del CSM dinanzi agli illeciti dei magistrati (offensiva per il popolo la sanzione del trasferimento di sede per condotte ritenute turpi o riprovevoli).
Regime autoritario: la lettera con la quale nel 1943 il Ministro C. A. Biggini licenziò il prof. G. Calogero, con la generica accusa di nutrire sentimenti antifascisti, non differisce, mutatis mutandis, dalla lettera con la quale un burocrate delle Ferrovie nel 1996 irrogò il licenziamento (dichiarato legittimo da tutti i giudici che se ne occuparono, tranne uno!) a cinque lavoratori cui era stata contestata una infrazione insussistente!
Costituzione, art. 34: pochi o molti dei milioni di minori cui fu negato il diritto all’istruzione obbligatoria avrebbero potuto dare lustro al Paese; 259 anni fa J. J. Rousseau insegnava che dall’educazione dei minori e dalla formazione dei cittadini derivano considerevoli benefici all’intera comunità.
Le alte cariche dello Stato, manifestando somma indifferenza dinanzi ai mille atti antidemocratici quotidiani del Potere, insensatamente si espongono al rischio di scoppiare.
L’indegnità di molti rappresentanti del popolo e dello Stato è di ostacolo al rafforzamento della coesione sociale intorno ai valori costituzionali. Ritenendo lei, fra i giuristi, per scienza e coscienza, il più vicino al Cielo e, quindi, nella posizione più favorevole per osservare le umane debolezze, le
CHIEDO
se intende, in omaggio ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, assumersi il compito di suggerire ai cittadini, sgovernati da 73 anni, gli strumenti giuridici che possano liberarli dalle schiere di corrotti e incompetenti (da mettere al bando, secondo il Presidente Pertini) che hanno occupato le istituzioni a tal punto che il Capo dello Stato fu incensato (Repubblica, 19.06.2003) quale artefice dell’approvazione della legge incostituzionale n. 140/2003, e il Giudice delle leggi si spinse a dire che i diritti dei cittadini possono essere frustrati dall’errore di un cancelliere (ord. 57/2017)!
Il popolo, smarrito e alla ricerca continua di un Salvatore, le sarebbe infinitamente grato.
10.03.2021