La democrazia dall’alto e il governo dal basso

25 Feb 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Nell’orgia di parole, adulazioni smaccate e denigrazioni gratuite, sospetti e certezze di autoproclamati “opinionisti” che durano meno dello spazio d’un mattinale, ma che riempiono giornali, televisioni, media d’ogni genere, mi pare saggezza allo stato puro l’invito biblico: calma, non parlate invano e aspettate i frutti per giudicare l’albero. Delle parole vuote e balorde che abbiamo dette, ci si chiederà conto. Ciò premesso, eccomi pronto a dare il mio contributo. Che cosa ci riserverà il prossimo futuro della politica, non lo sa nessuno perché mancano e non si intravedono i frutti. Invece, vediamo bene ciò che è accaduto e ha portato al governo che abbiamo, con le caratteristiche costituzionali che derivano dalla sua stessa genesi.

C’è chi prontamente si è allineato compiacendosi di un presunto “ritorno alla Costituzione scritta”, virtuosa e ripulita dalle incrostazioni che la “costituzione materiale” vi ha appiccicato negli anni, sconciandola e appesantendola. Alleggerita della zavorra, la Costituzione avrebbe dunque spiccato il volo, immacolata. Un governo al quale è venuta sfaldandosi la maggioranza è andato e un altro è venuto, che la maggioranza (e che maggioranza!) ce l’ha. L’operazione si è svolta sotto la regia del presidente della Repubblica, come dice la Costituzione. Nessun problema dal punto di vista del rispetto delle sue norme dunque.

Ma i sistemi di governo non vivono solo di norme scritte. Essi operano in condizioni storicamente date. Onde può accadere che, ferme le norme scritte, le loro applicazioni diano luogo a risultati diversi. Per non andare lontano da noi, abbiamo avuto governi incentrati su forti leadership politiche, con distinzioni e contrapposizioni nette e di principio tra maggioranza e opposizioni; in altri momenti, sono prevalse strategie politiche di compromesso che hanno allargato la base parlamentare e sfumato le contrapposizioni; in altri ancora, le maggioranze si sono ridotte a mere somme per far “quadrare” i numeri, con la ricerca spregiudicata di voti e trasformismi parlamentari in misura inimmaginabile, pur in un Paese come il nostro che del trasformismo ha fatto un’arte.

Queste oscillazioni sono derivate da molti fattori: gli orientamenti degli elettori, i risultati delle elezioni determinati dai sistemi elettorali, le prospettive e i programmi delle forze politiche, la pressione di bisogni impellenti ai quali non si poteva sfuggire e che imponevano alleanze emergenziali innaturali e fatalmente deboli. Oltre a ciò, valevano anche le strategie dei soggetti politici, come la tentazione di alcuni presidenti della Repubblica di forzare i limiti dello spazio loro concesso dalla Costituzione, nelle dinamiche parlamentari e governative. A ciascun passaggio, la posizione reciproca del Parlamento, del governo e del presidente della Repubblica veniva a cambiare in un gioco a tre di interdipendenze.

Queste considerazioni mi paiono sufficienti a mostrare la superficialità dei discorsi che si richiamano alle sole norme della Costituzione e non si interrogano sullo sfondo che ne determinano la “resa” concreta. Questo “sfondo” è quello che i costituzionalisti da gran tempo chiamano “convenzioni della costituzione”. La formazione del governo è regolata solo nel suo scheletro essenziale da norme scritte e, per la gran parte, da norme “convenzionali”. Quelle che abbiamo si sono formate e consolidate nel tempo per consentire ai cittadini associati in partiti, tramite i loro gruppi parlamentari, di “partecipare alla determinazione della politica nazionale”, come dice l’articolo 49 della Costituzione.

Il compito del presidente della Repubblica è di registrare la situazione politico-parlamentare e di favorire, ove occorra, la formazione d’una maggioranza che esprima, sostenga il governo e gli conferisca la fiducia che è necessaria per governare. Egli è un regista, ma non è l’autore del copione; l’indirizzo politico e il governo che ne deriva non spettano a lui. A ciò servono le consultazioni delle forze politiche, le “esplorazioni”, l’incarico al presidente del Consiglio designato che “si riserva” di accettare la nomina all’esito di ulteriori consultazioni parlamentari. Questa procedura a volte risulta stucchevole, bizantina e farraginosa tanto più quando il Parlamento è frammentato e le forze politiche si abbandonano a giochi e ricatti politici spregiudicati. Essa, tuttavia, ha una logica: il governo “dal basso”.

La logica dal basso è, precisamente, la logica della democrazia rappresentativa. Il buon esito, però, non è affatto garantito. Questo è il grande rischio della democrazia: l’impasse. La democrazia è bella ma, come tutte le cose belle, è fragile e facilmente può sciuparsi. In presenza dello stallo, la logica si rovescia: al “dal basso” si sostituisce il “dall’alto”. Questa alternativa è risultata chiarissima nella drammatica dichiarazione pubblica del 2 febbraio con la quale il presidente della Repubblica ha certificato l’inesistenza d’una maggioranza politica parlamentare e il fallimento delle iniziative per formarla e, al contempo, ha preso in considerazione la via maestra, l’extrema ratio che si apre quando il Parlamento è bloccato: lo scioglimento, le nuove elezioni e la parola agli elettori.

L’ha presa in considerazione ma l’ha esclusa, dati i costi politici di una campagna elettorale, la sicura intensificazione della rissosità tra le parti contendenti, il congelamento dell’azione di governo per molti mesi, a fronte delle emergenze sanitaria, economico-finanziaria, e sociale che richiedono risposte e a fronte delle responsabilità internazionali che l’Italia si trova ad assumere. In quel discorso è risultato evidente che il cambio di passo che il presidente annunciava – la convocazione di una personalità fuori della mischia politica per conferirgli l’incarico di formare il nuovo governo – era dovuta a uno stato di necessità e non certo a una volontà prevaricatrice. La prima opzione è pur sempre la democrazia che si sviluppa attraverso gli organi della partecipazione politica.

Credo di poter immaginare i dubbi, le esitazioni e perfino la sofferenza d’una decisione di cui è testimonianza il tono accorato, sebbene deciso, delle parole d’un uomo della scuola costituzionalistica di un Leopoldo Elia, maestro di tanti, il quale fu sempre cauto, per non dire ostile, di fronte alle involuzioni verticistiche e oligarchiche in agguato nel nostro sistema costituzionale. Data quest’ interpretazione di fatti e norme, non sarebbe corretto parlare di un “finalmente siamo tornati alla Costituzione”. Non corretto e pericoloso, se vuol essere la citazione di quel “torniamo allo Statuto” invocato nel 1897 da Sidney Sonnino, che contribuì all’atmosfera politica delle cannonate e delle fucilate di Bava Beccaris nel 1898, e del regicidio nel 1900.

L’atmosfera politica è importante, è “preparatoria”. Piuttosto diciamo che è stato fatto uso di un potere presidenziale di riserva: non sostituzione ma boccata d’aria, pausa, allentamento della pressione sui partiti in Parlamento entrati in stallo in un momento di difficoltà eccezionali; allentamento in vista della ripresa della normalità. Chi saluta con gioia i “governi del Presidente” o i “governi dei migliori” e chi vede con soddisfazione i partiti politici rallegrarsi insipientemente per essere stati messi “in buone mani” lavora a favore d’un cambio di paradigma costituzionale: la sostituzione del “basso” con “un alto”, il che non è buona cosa per la democrazia, ma è ottima per l’oligarchia.

La Repubblica, 25 febbraio 2020

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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