Un trascinante elogio delle tasse

22 Feb 2021

Tomaso Montanari

 

“Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”. L’infelice battuta del discorso con cui il banchiere centrale prova a indossare i panni di capo di un governo verde conferma l’ovvio: tutto si misura sul metro economico-finanziario. Per capire se, alla prova dei fatti, questo governo andrà più a destra o più a sinistra, bisognerà seguire i soldi. In particolare, quella riforma fiscale che, sono ancora parole di Draghi, “segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio”.

In realtà, indica molto di più: indica il tasso reale di democrazia e di giustizia di una società. E proprio mentre Draghi parlava, arrivava nelle librerie un metro lucidissimo su cui misurare la riforma fiscale che verrà: il libro che il costituzionalista Francesco Pallante ha dedicato all’Elogio delle tasse. Sfidando un cumulo di luoghi comuni, e decostruendo il fumo dei programmi politici attraverso una nuda analisi della realtà, Pallante verifica la distanza che corre tra il progetto costituzionale di un fisco progressivo e il suo incessante smantellamento.

A volerlo progressivo, ricorda Pallante, non erano stati i comunisti, ma i liberali. In un appassionante esame delle Lezioni di politica sociale tenute da Luigi Einaudi agli studenti rifugiatisi in Svizzera nel 1944, Pallante mostra il futuro presidente della Repubblica che “invitava il suo uditorio a riflettere sul diverso valore che assumevano le medesime dieci lire se usate per acquistare un piatto di minestra o per assicurarsi un posto a teatro.

Dunque, a chi non ha problemi a procurarsi il pane l’erario può richiedere un sacrificio maggiore e, al crescere del reddito o del patrimonio, domandare una più elevata percentuale di risorse da versare al fisco.

È, questo, il nucleo essenziale della progressività fiscale, il principio a cui sono ispirati i sistemi tributari contemporanei”. A dare forma concreta a queste idee, fu un altro liberale, Bruno Visentini: disegnando (nel decreto istitutivo dell’Irpef, 1973) un fisco a ben 32 scaglioni, aderente alla “volontà di calibrare con la massima attenzione l’intervento dello Stato sulle risorse dei cittadini, distinguendo le singole posizioni concrete di ciascuno sin quasi nelle sfumature. L’ideale di riferimento era senz’ altro quello dell’uguaglianza in senso sostanziale”.

Il cammino inverso iniziò nemmeno dieci anni dopo: nel 1982 “l’aliquota più bassa, valevole per i redditi fino a undici milioni di lire, salì al 18 per cento, mentre quella più elevata, per i redditi superiori a cinquecento milioni, scese al 65 per cento. Nel 1989 quella superiore, per i redditi oltre i trecento milioni, crollò al 50 per cento. È in esito a questo percorso che Vincenzo Visco, ministro delle Finanze nel primo governo dell’Ulivo, assestò, nel 1997, il colpo (per ora) finale alla progressività fiscale, limitando gli scaglioni dell’Irpef ad appena cinque”.

Nel suo discorso, Draghi ha citato come ottimo esempio la riforma Visentini, ma subito dopo ha anche menzionato la riforma fiscale della Danimarca, in cui “l’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta”. Come dire: saremo bravi come Visentini, ma non alzeremo le tasse dei ricchi. Un’esegesi confermata dal passaggio in cui Draghi annuncia che la riforma sarà fatta “preservando la progressività”: visto che oggi la progressività di fatto non c’è più, significa che in realtà non si vuol tornare a Visentini, Einaudi e alla Costituzione. A quell’idea di giustizia ed eguaglianza che spinge Francesco Pallante a un trascinante “elogio delle tasse”.

Il Fatto Quotidiano , 18 febbraio 2021

 

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