STRAGE DEL 904, L’ITALIA SCOPRE CHE LA MAFIA UCCIDE AL NORD

24 Dic 2020

Erano le 19.08 del 23 dicembre 1984, quando il treno rapido n. 904 Napoli-Milano giunse all’appuntamento con la morte: un ordigno veniva fatto esplodere nella nona carrozza di seconda classe, mentre transitava nella Grande Galleria dell’Appennino tosco-emiliano, in località San Benedetto Val di Sambro, con direzione da Firenze verso Bologna, a una velocità di 128 km orari. Quindici passeggeri morirono immediatamente, un altro il giorno seguente; 267 feriti.
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Vittime innocenti della ferocia mafiosa. Da 31 minuti e venti secondi il treno aveva abbandonato la stazione ferroviaria di S.M. Novella, ove un uomo alto m. 1,75, robusto, dell’età fra i 40 e i 50 anni (secondo le descrizioni fornite dalla passeggera Rosaria Gallinaro) sistemava, intorno alle 18.30, due borsoni scuri, pieni di esplosivo plastico alla pentrite sulla griglia portapacchi posta in alto del corridoio prima dell’ingresso al terzo scompartimento della nona carrozza.
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Sono trascorsi trentasei anni da quella che fu consegnata alla storia come la strage di Natale. Un eccidio che deve essere ricordato per rendere omaggio alle vittime, perché fece capire che la mafia è un problema nazionale. A differenza di altre che l’avevano preceduta, la strage non è rimasta impunita, o almeno totalmente impunita.
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Il 24 novembre 1992 è passata in giudicato la sentenza di condanna nei confronti del “cassiere” di Cosa Nostra, Giuseppe Calò, riconosciuto ideatore e organizzatore, di Guido Cercola, di Franco Di Agostino e del tecnico elettronico tedesco Friedrich Shaudinn. E nel mese di ottobre di quest’ anno è stata respinta definitivamente la richiesta di revisione Pippo Calò, che, come ogni mafioso di rango, non accetta le condanne all’ergastolo, una pena ancora oggi irrinunciabile per il contrasto al crimine mafioso.
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È stata accertata, in maniera incontrovertibile, la matrice mafiosa dell’episodio ed è stato riconosciuto che quell’eccidio fu attuato con il proposito di indurre lo Stato ad allentare lo sforzo repressivo sulla mafia in Sicilia, messo in moto dalle collaborazioni di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, portato avanti dal pool guidato da Antonino Caponnetto e accresciutosi per effetto degli oltre 300 mandati di cattura emessi poco tempo prima.
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Un attentato che sarebbe dovuto apparire come ispirato da matrice terrorista e che avrebbe dovuto distogliere l’impegno delle istituzioni e della società civile dal contrasto a Cosa Nostra, facendo apparire l’esistenza di un pericolo per la Nazione diverso e maggiore da quello costituito dalla mafia.
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Si è trattato di un delitto terroristico-eversivo, compiuto a distanza di un anno e 5 mesi della strage palermitana di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983, ai danni del consigliere istruttore Rocco Chinnici, nel quale è avvenuta la saldatura tra il settore camorristico della Nuova Famiglia, Cosa Nostra ed appartenenti alla criminalità romana, in virtù del ruolo di frontiera di Pippo Calò.
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Se è stata fatta emergere una porzione significativa di verità, rimangono, però, interrogativi e zone grigie. Gli accertamenti giudiziari non hanno consentito di individuare chi collocò materialmente l’ordigno e di decifrare il torbido quadro criminale in cui quella strage si inserì, di capire fino in fondo perché agirono quelle mani assassine, se l’obiettivo di distrarre l’attenzione dalla Sicilia fosse riconducibile solo agli appartenenti alla criminalità organizzata o anche ad altri, se vi sia stata una prospettiva ricattatoria da parte degli ideatori, se e quali rapporti vi siano stati tra la mafia e aree della criminalità del potere nell’ideazione, relazioni che hanno fatto capolino in varie vicende delittuose anteriori al 1984, come nell’uccisione di Aldo Moro, nell’omicidio di Mino Pecorelli, nel caso Sindona, nell’attentato a Roberto Rosone del 24 aprile 1982 e nell’omicidio di Roberto Calvi.
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Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2020

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