Cosa ci insegna la ‘Now Age’ di prof e negazionisti 

17 Nov 2020

Si allunga la lista delle lezioni che dovremmo imparare dal Covid in vista del temibile decennio che ci aspetta. Tentiamo un rapido inventario. Primo, il mondo in cui viviamo è regolato da inesorabili processi naturali, che spiegano ad esempio i mutamenti climatici e le pandemie; negare le leggi fisiche o biologiche non serve a niente. Come ha scritto Bill McKibben sul New Yorker, la realtà fisico-chimica del pianeta si muove alla velocità che le è propria, non a quella che vorremmo noi. Prudenze, compromessi, esitazioni dettate da convenienze politiche non rallentano i processi di degrado. 

Seconda lezione, il galoppante diffondersi di questa pandemia e di quelle che verranno dipende dall’allevamento intensivo di bestiame da macello: la prossimità fisica degli animali ammassati nelle stalle velocizza la diffusione dei virus e le loro mutazioni, che poi colpiscono gli umani. Se rimuoviamo dalla coscienza questo dato non miglioriamo la situazione, la peggioriamo.

Terza lezione, le crisi globali, che siano finanziarie o sanitarie, incrementano la diseguaglianza. I ricchi (che sono sempre meno) diventano sempre più ricchi, e alla folla dei poveri si aggiungono le sempre nuove povertà. La crescente disoccupazione non si risolve sognando l’improbabile ritorno allo status quo prima della pandemia, ma creando nuove linee lavorative, dirette ad affrontare le nostre fragilità: la crisi climatica, il rischio idrogeologico, il degrado dell’ambiente, dell’agricoltura di qualità e delle tecniche di allevamento, le debolezze del sistema sanitario, il declino della scuola e della ricerca.

Milioni di persone potrebbero così contribuire almeno a diminuire la pressione dei flagelli che ci affliggono. Per esempio, le energie pulite costano sempre meno e il lobbying delle grandi compagnie petrolifere, scrive McKibben, si è molto indebolito. Dovremmo dedicarvi più ricerca, più energie, più lavoro.

Di questi giorni è la quarta lezione: le misure di contenimento del contagio generano disordini di piazza, alimentati non solo dalle difficoltà economiche ma da incertezze, frustrazione e malcontento. In quelle piazze ci sono, certo, i negazionisti del virus o del riscaldamento globale, mescolati a scorie fasciste. Ma non possiamo accontentarci di questa spiegazione senza chiederci su quale terreno di coltura possano mai fiorire gli slogan auto-lesionisti urlati nelle piazze (“Libertà, libertà!”: libertà di morire e di far morire?).

Se la causa “negazionista” guadagna terreno, è anche perché nessuno al mondo sa veramente cosa stia succedendo, quali e quante mutazioni del virus possiamo aspettarci, se e quando vi saranno cure e vaccini garantiti ed efficaci, quali siano le “giuste” misure di lockdown. Ma anche perché chi crediamo che sappia, i competenti (biologi, virologi, medici, ma anche giuristi e public intellectuals), solleticati dai media, non tacciono un istante. Hanno fretta di esprimersi, parlano troppo, dicono cose tra loro in contraddizione, cambiano idea senza ammetterlo, litigano fra loro.

Si crea così un pulviscolo di asserzioni segmentate, parziali, instabili, in continua mutazione, da cui veniamo quotidianamente bombardati senza avere una bussola, un criterio di orientamento, la speranza di farci un’idea propria. In questa babele, le iniziative di piazza che si dicono contro “lo scientismo”, e sono in realtà contro la scienza, non possono che fiorire.

Ma c’è una quinta lezione, più ardua da riconoscere. È vero, il disorientamento dei cittadini che hanno il diritto di non avere su questi temi un’opinione esperta è conseguenza inevitabile della loquacità, spesso a vuoto, dei competenti. Ma c’è qualcosa che ci accomuna tutti, ed è l’abitudine a frequentare sui nostri computer o cellulari una “realtà” scivolosa, liquida, manipolabile.

Tendiamo a dimenticare che la realtà fisica che ci circonda è, invece, solida, indomabile, talvolta ostile. Finiamo col credere che ipotesi indimostrabili, se ben formulate, possano prendere il posto della verità: e infatti così succede, ma dura lo spazio di un mattino. Coltiviamo un’estetica dell’effimero che ci corrompe nel profondo e cancella il confine fra il certo e il vagamente possibile. È per questo che anche veri esperti, in preda alla sindrome da twitter, vanno in caccia di facile popolarità.

Professori d’ogni obbedienza e d’ogni disciplina (dalla virologia alla storia dell’arte) passano notti insonni immaginando il tweet con cui daranno il buongiorno ai propri follower, e lo costruiscono pensando alla sua efficacia e non alla sua verità. Sono protagonisti e vittime di questa ‘Now Age’ che viviamo: l’età dell'”ora”, dell’istante, del corto respiro, dell’affanno, in cui per conquistarsi ‘pollici alzati’ in gran numero è meglio essere influencer che studiosi.

Perciò emettono tweet, interviste e sentenze come un cavallo da soma che stilla incessantemente sudore anche quando va verso il macello. Tutto può esser detto senza alcun controllo, e siccome verrà prestissimo dimenticato possiamo permetterci qualsiasi errore senza avvertirne la responsabilità. Ci aggiriamo nel pulviscolo di troppe parole e di troppe approssimazioni come in una nebbia sempre più fitta.

Perciò negare l’evidenza, che sia il riscaldamento globale o la pandemia, non è questione di verità, ma di politica e di appartenenza. In America, un partigiano di Trump rischia la vita pur di non portare la mascherina; in Italia, le destre condannano le misure di sicurezza come “autoritarie”, ma solo per far cadere il governo e mettersi al suo posto prendendo per sé i “pieni poteri” a loro assai graditi.

Questa quinta lezione è la più difficile da accettare, anche perché – diceva Arnaldo Momigliano – i professori sanno tutto tranne una sola cosa: dire “questo non lo so”, o peggio che mai “in questo ho sbagliato”. Intanto tutto si manipola e si logora: la biologia come la storia, i valori civili, le priorità del diritto, le regole del gioco della scienza, la giustizia sociale.

La verità dei fatti cede il passo alla petulanza dei “fattoidi”, incontrollati ma confezionati per l’applauso. Diventa impossibile concordare anche su ciò che è di palmare evidenza: che i tagli alla sanità e la sua la regionalizzazione, chiunque li abbia voluti, stanno facendo vittime ogni giorno; che i tagli alla scuola e alla ricerca, chiunque li abbia voluti, sono una ferita al nostro futuro. Conta l’appartenenza di chi parla, e non quel che dice né con quali argomenti lo sostiene.

Vince la sindrome da twitter, il corto respiro, lo sguardo miope. Perde chi guarda lontano, ragiona sui tempi lunghi, disdegna il parlottio della ‘Now Age’. E invece il più attuale tweet, l’unico e solo che varrebbe la pena di rilanciarsi l’un l’altro ogni mattina, è forse un verso del Cimitero marino di Valéry: Le vent se lève! Il faut tenter de vivre! [Si leva il vento, bisogna tentare di vivere!]. Parole che hanno cent’ anni giusti, ma rispetto ai tweet di oggi e di domani hanno un vantaggio: fanno pensare.

Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2020

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