La sfida della pandemia e gli errori dei governi

16 Nov 2020

1.La distinzione, cara a Pier Paolo Pasolini, tra “sviluppo” e “progresso” , si è manifestata con estrema chiarezza nel caso delle reazioni alla pandemia in corso. In un mondo iper-tecnologico (e quindi  “sviluppato”) e soprattutto nelle sue parti maggiormente investite da tale “sviluppo”, il livello di razionalità non solo delle masse, ma anche delle classi dirigenti, sembra essere tornato a quello del Seicento superstizioso e fanatico.

Della descrizione manzoniana della peste viene ricordata frequentemente la vicenda dei cosiddetti “untori”, cioè gl’intenzionali diffusori della pestilenza, del tutto immaginari, e tuttavia identificati in persone in carne ed ossa, conseguentemente destinate al linciaggio. Ma la fase degli untori è tarda, segue alla inevitabile constatazione che la peste esisteva davvero. In una prima fase, la peste venne invece negata, ed il Manzoni ce la descrive con parole che impressionano per quanto descrivono una situazione simile a quella attuale. Nel capitolo XXXI della sua opera principale, si legge che, quando i primi casi di peste cominciarono a manifestarsi, “la radezza stessa de’casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso (…) Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, mettere in sequestro case, mandava famiglie al lazzaretto, così è facile argomentare   quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, ‘della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe’, dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva su due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del proto fisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. (…) Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento”. Ma, pur dopo che la peste si era ampiamente manifestata, e che si era trovato negli “untori” un capro espiatorio cui attribuire il contagio, “c’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, ‘si diceua’ (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), ‘si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti’ (…) In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea si ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea   del venefizio e del malefizio”.

Come ben si vede, il negazionismo non è affatto un’invenzione recente, essendo alimentato da quello che oggi si usa chiamare wishful thinking, il quale è una forma di convincimento   erroneo generato dal conflitto tra il principio di realtà e il principio di piacere, col prevalere di quest’ultimo sul primo[1]; e neppure è recente la tendenza di alcuni (pochi o tanti, comunque troppi) medici (quelli che il Tadino, la fonte del Manzoni, chiama “medici partiali”), ad assecondare tale forma di pensiero per ottenere il consenso ed evitare il linciaggio (oggi , si spera, solo mediatico, allora fisico) che toccava a chi si ostinava ad indicare la verità. A rileggere oggi   della lentezza con cui l’opinione pubblica della Milano del Seicento prendeva atto dell’esistenza della peste, sembra di leggere il dibattito pubblico delle ultime settimane: quando, al rimontare della curva epidemica, ogni giorno si sentiva dire dapprima che sì, i contagi aumentavano, ma solo perché erano aumentati anche i tamponi, e che comunque non era come a marzo, perché le terapie intensive non si riempivano e i morti erano molti meno; poi, quando hanno cominciato a riempirsi anche le terapie intensive, si è sentito dire che non era come a marzo perché ancora i decessi erano in numero contenuto; infine, quando anche i morti sono cresciuti a dismisura, non hanno saputo più cosa dire. Perché, nonostante i social, gli untori sono ancora (per ora) un’ipotesi insostenibile. Nel frattempo, il Governo, anziché giocare di anticipo, rincorreva il virus con misure troppo blande, via via inasprite, che non riuscivano a tenere il passo col contagio.

2. Fatta questa utile introduzione sul modo di ragionare “della Nobiltà, delli Mercanti, et della plebe”, nel secolo Decimosettimo come oggi, passerei ad esaminare il motivo per cui, nonostante le conoscenze scientifiche che ci avrebbero permesso di evitare il dilagare del contagio, oggi risiamo nel mezzo della pandemia e delle sue conseguenze, sanitarie, economiche e sociali. Il motivo, è presto detto, consiste nel fatto che la strategia seguita da quasi tutti i paesi occidentali -anche quelli più prudenti , e che non hanno seguito la teoria neo-nazista[2] (prevalente in Svezia, negli USA di Trump e, inizialmente, nel Regno Unito di Johnson) volta a perseguire la cosiddetta “immunità di gregge” – è sbagliata, perché finalizzata   semplicemente a contenere il contagio per non sovraffollare i reparti di terapia intensiva, anziché a debellarlo. Tale strategia è sbagliata dal punto di vista sanitario, perché le terapie intensive non sono un valido rimedio alle forme più gravi di malattia, in quanto una quota rilevante di chi vi è ricoverato (almeno il 30%, ma all’inizio dell’epidemia   è stato anche di più) non guarisce, ma muore. Dal punto di vista sanitario, quindi, prima di preoccuparsi di assicurare a tutti una forma di terapia così gravemente insufficiente (oltreché impegnativa e costosa), si dovrebbe evitare che si renda necessario il ricorso ad essa, limitando al massimo il diffondersi del contagio. Dal punto di vista economico e sociale, poi, tale strategia è ugualmente sbagliata, perché, ottenendo dei risultati solo temporanei e reversibili nel giro di breve tempo, sottopone l’economia ad una serie ripetuta di stop and go ipoteticamente destinati a terminare solo quando sarà disponibile un vaccino che ancora non si sa se e quando ci sarà e sarà davvero efficace (anche qui, parlare di un vaccino che risolverà tutto a breve termine è, evidentemente, wishful thinking), e quindi ad uno stress notevolmente superiore a quello che si avrebbe attraverso un lockdown un po’ più prolungato ma risolutivo. Come molti hanno già osservato, nulla è stato più stupido e deleterio che mettere in competizione, nel dibattito pubblico, la salute e l’economia, come se le ragioni della prima non concordassero (in un arco di tempo superiore al mese) con quelle della seconda. Dovrebbe essere illuminante al proposito l’esempio della Cina, primo paese colpito dal contagio, che, dopo esserne uscito totalmente, con restrizioni molto severe, si ritrova oggi con l’economia a gonfie vele.

L’opinione mainstream sostiene che quel che ha fatto la Cina non sarebbe replicabile in Occidente perché realizzabile solo in uno Stato fortemente autoritario. Ma non mancano esempi di paesi liberal-democratici, non solo orientali (Giappone, Corea del Sud, Taiwan), ma anche di cultura occidentale (in particolare, Australia e Nuova Zelanda) che sono riusciti ad azzerare il contagio. La Nuova Zelanda si è sottoposta ad un lockdown severo e prolungato pur di fronte a pochi casi, agendo in anticipo e ottenendo così la completa sconfitta del virus. Analoghe misure sono state prese, anche se regionalmente, in Australia, dove la città di Melbourne ha vissuto un lockdown di oltre 100 giorni, terminandolo solo quando i contagi erano arrivati a zero. Naturalmente, questo ha anche implicato una chiusura prolungata delle frontiere, ma anche gli stati europei avrebbero potuto e dovuto adottare tale misura, del resto posta in essere durante la prima fase dell’epidemia.

3. Concentrando poi l’attenzione sul nostro Paese, vi si notano alcune aggravanti della pur complessivamente sbagliata strategia occidentale. Qualche commentatore ha detto che, nella seconda ondata, il Governo sarebbe stato più titubante e meno deciso che nella prima, e che di ciò sarebbe prova il frenetico susseguirsi dei DPCM in pochi giorni. Evidentemente questi commentatori hanno la memoria del criceto, perché basta scaricare dal sito www.governo.it l’elenco dei provvedimenti in tema di coronavirus, per scoprire (o meglio, per ricordare) che, nel mese di marzo, furono emanati ben sei DPCM (in data 1, 4, 8, 9, 11 e 22 marzo), di cui tre in quattro giorni (8, 9, 11), per cui la recente frenesia normativa non è casuale, ma indice di un ricorrente modus operandi. Con la differenza, semmai, che se il procedere per tentativi ed errori poteva essere in qualche modo giustificabile quando la pandemia era all’inizio e il nostro Paese era il primo ad affrontarla in Europa, molto meno lo è stata in ottobre, quando non solo l’esperienza dei mesi passati, ma soprattutto quella più recente degli altri paesi europei, che ci avevano preceduto di qualche settimana nella nuova ondata, poteva far prevedere quale sarebbe stato lo sviluppo della curva di contagio, consentendoci così, se solo lo avessimo voluto, di giocare di anticipo, come pure qualche discusso e controverso presidente di regione suggeriva (magari senza dare sempre seguito, a sua volta, ai propri buoni propositi). Si aggiunga che l’opinione pubblica “vera” (la “maggioranza silenziosa” del Paese, si potrebbe dire, se l’espressione non fosse stata coniata in altri momenti e con altro significato) anche se i media hanno dato enorme spazio ai negazionisti e alle proteste di categorie interessate e di eversori di ogni risma, mette invece al primo posto la tutela della salute, se si pensa al risultati elettorali raggiunti due mesi fa dai governanti regionali più severi, ed ai recenti sondaggi secondo i quali tre quarti degli italiani consideravano o adeguate, o insufficienti, le prime misure prese nella “seconda ondata”, e solo un quarto le riteneva eccessive.   Ma la titubanza e la lentezza di riflessi, oltre a rappresentare una nota caratteristica dell’azione governativa, in primavera come in autunno, confermano anche il giudizio pesantemente negativo che deve essere dato su un momento centrale della vicenda in Italia, cioè il vergognoso ritiro delle forze dell’ordine dalla Valseriana, dove erano pronte ad intervenire per imporre la zona rossa, e da cui si è scatenata la parte più importante e tragica dell’epidemia. Un ritiro, verosimilmente (anche alla luce dei comportamenti successivi) dettato dal servilismo verso il potere economico, che merita di essere accostato, nella storia patria, alla “fuga ingloriosa” verso Brindisi, di cui parla la vecchia canzone partigiana[3].

[1] Si potrebbe dire che il prevalere del principio di piacere   su quello di realtà sia perfettamente allineato con gl’istinti profondi di una società edonista e consumista che, per inseguire puerilmente il “qui e ora”, ha tradito e abbandonato anche la razionalità illuminista in cui affondano le radici della sua secolarizzazione, in tal modo votandosi alla propria dissoluzione.

[2] Per giustificare tale qualificazione, apparentemente sproporzionata, rinvio al mio articolo dal titolo “L’Economist e il nazismo ‘implicito’ “ https://libertaegiustizia.it/2020/05/13/leconomist-e-il-nazismo-implicito/

[3] “La Badoglieide”, canzone satirica partigiana dedicata a Pietro Badoglio, di cui una strofa così recita: “Ti ricordi la fuga ingloriosa/con il re verso terre sicure/siete proprio due sporche figure/meritate la fucilazion”.

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