L’ISLAMOFOBIA E LA LAICITÀ SFIGURATA

12 Nov 2020

Barbara Spinelli

In principio i francesi li chiamavano arabi, appellativo che assume connotazioni peggiorative alla fine degli anni 70, producendo ingiurie come bicot o bougnoule. Poi gli arabi diventano islamici, o peggio islamo-fascisti se non prendono le debite distanze pubbliche dagli atti terroristici compiuti in nome di Allah. 
Dopo l’11 settembre il secondo epiteto si diffonde. Il giornalista Thomas Deltombe critica nei primi anni 80 l'”islamizzazione degli sguardi”. Sono gli anni in cui si discute l’interdizione del velo indossato dalle donne musulmane negli spazi pubblici. Alcuni interpretano la proibizione come il divieto di nascondere il proprio volto ovunque, mentre la legge si applica solo nelle istituzioni pubbliche: “Il cittadino ha il diritto di credere o non credere, e può manifestare all’esterno tale credenza o non-credenza, nel rispetto dell’ordine pubblico”, così scrive Nicolas Cadène, membro dell’Osservatorio della Laicità, in un ottimo manuale uscito in ottobre con la prefazione di Jean-Louis Bianco, presidente dell’istituto governativo (En finir avec les idées fausses sur la laïcité – Farla finita con le idee false sulla laicità).
Molti chiedono subito l’espulsione dall’Osservatorio dei due autori. Fortunatamente il Presidente Macron non cede. Sulla rivista Regard, Aude Lorriaux ricorda la definizione dell’ebraismo che Sartre diede nel 1944: “È l’antisemita che crea l’Ebreo”. Definizione riduttiva e giustamente controversa, che però fu adattata all’Islam dalla scrittrice Karim Miské nel 2004: “È l’islamofobo che crea il musulmano” (è discutibile anche questa variazione: l’islamofobo semmai “crea” l’Islam radicale).
Grosso modo è questa la storia che precede gli attentati delle ultime settimane, e le dispute su Islam e laicità ricominciate in Francia. Più ancora che in passato, gli argomenti islamofobi escono dai territori di estrema destra e diventano linguaggio non sempre esplicito ma dominante. Macron scongiura le derive, ma è pur sempre lui ad aver denunciato il “separatismo” che affligge la vasta comunità musulmana (4,7 milioni). A Nizza promette sostegno ai cristiani martoriati ma non ai musulmani che col terrorismo non hanno nulla a che fare.
Il ministro dell’Educazione Blanquer accusa di complicità con il terrorismo chiunque difenda nelle accademie l'”intersezionalità”, termine coniato dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali o religiose. Il ministro dell’Interno Darmanin ordina la chiusura della moschea di Pantin presso Parigi (aveva diffuso un video sulla vicenda Paty), di due associazioni che lottano contro l’islamofobia, e dei reparti halal nei supermercati.
Nel mirino del ministro: i deputati “islamo-gauchisti” di France Insoumise, il partito di Mélenchon. La laicità viene sfigurata, trasformata in uno strumento di guerra anziché di convivenza con comunità gelose della loro autonomia, nel rispetto dell’ordine pubblico. Tranne alcune eccezioni, anche in Italia lo sguardo si islamizza e la laicità è presentata come valore supremo, refrattario a compromessi (“Ogni compromesso è compromissione”, twitta Darmanin, mentre nel suo manuale Cadène afferma che la laicità “non è affatto un valore ma un metodo”).
Alcuni scrivono che le religioni sono “categorie del passato”. Sono citati Cristianesimo e Islam (non l’Ebraismo, protetto da salutare tabù). L’eccezione ebraica rende ancora più offensiva la designazione di Cristianesimo e Islam come “categorie”. Chi ci dà il diritto di fissare la data di scadenza delle religioni, quasi fossero etichettabili cibi in scatola? Un post di Carlo Rovelli, filosofo della scienza, accende la miccia in Italia due giorni dopo la feroce decapitazione del maestro Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine.
Per spiegare cosa sia la libertà d’espressione, Paty aveva mostrato in classe una vignetta di Charlie Hebdo – la più brutta, quella che illustra il Profeta nudo, inginocchiato e col sedere scoperto. Non è ancora chiaro cosa abbia detto agli alunni musulmani: se veramente li abbia invitati a girare la testa o andarsene, qualora si sentissero offesi. Se così stanno le cose Paty resta vittima di un’efferatezza allo stato puro, ma la sua lezione di educazione civica non era ben fatta.
È quello che sostiene Rovelli, ragionando così: “Non penso che debbano esserci leggi che vietano di pubblicare questo o quello. Ma penso che offendere, e poi – dopo essersi resi conto che offendere ferisce delle persone -, continuare ancora a offendere non sia un comportamento né apprezzabile, né ragionevole. Dobbiamo vivere insieme su questo pianeta. Non possiamo farlo rispettandoci? Non costa proprio niente evitare di offendere i musulmani pubblicando immagini offensive di Maometto. E, diciamoci la verità: le avete viste? sono davvero offensive. Crediamo forse di essere più democratici, più paladini della libertà, offendendoci a vicenda? Offendendoci, non facciamo che alimentare la violenza, dividerci in gruppi in conflitto, mostrare il grugno duro ‘io non mi faccio spaventare da voi anche se mi uccidete!’, ‘io sono più duro di te'”.
Non solo alimentiamo la violenza. Alimentiamo quello che Macron vuol scongiurare: il separatismo di intere comunità. E questo in tempi di lockdown sanitari, quando la popolazione è chiamata a unirsi contro ogni secessionismo negatore del Covid. Quando è consigliabile facilitare i compromessi con tutte le comunità religiose, anche le fondamentaliste. L’islamofobia più o meno latente si dichiara favorevole a una laicità che scambia per secolarismo o intiepidirsi delle religioni, e minimizza le virtù del compromesso. Il sociologo François Héran, uno dei massimi esperti di migrazione nel Collège de France, ricorda opportunamente come compromesso e compromissione non siano mai sinonimi.
Cita il filosofo Paul Ricoeur: “Il compromesso non è un’idea debole, ma al contrario estremamente forte. Nel compromesso ognuno resta al suo posto, e nessuno è privato del proprio ordine di giustificazione”. La laicità francese è una grande conquista, ma rischia il fallimento quando se ne fa abuso. Se nelle scuole si discutesse di libertà di espressione senza ripetutamente mostrare le vignette di Charlie Hebdo, e si spiegasse quel che essa significa con le parole – evocando ad esempio la storia delle caricature politico-religiose in Francia come suggerito da Héran – avremmo fatto un importante passo avanti verso compromessi che non dividono le nazioni oltre misura.
Il fatto quotidiano, 6 novembre 2020

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