Il regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni

10 Nov 2020

Francesco Pallante

Uno Stato debolissimo. Un Presidente della Repubblica inascoltato. Un Governo tremebondo. Un Parlamento inesistente. Venti regioni contro, a prescindere. Tra le vittime del Covid, impossibile non annoverare l’insieme delle istituzioni costituzionali.

La tragicommedia che ha accompagnato l’approvazione del Dpcm del 3 novembre 2020 – l’ennesimo nel volgere di pochissimi giorni, ma in effetti il primo che prende finalmente atto della seconda ondata e prova a fare da argine – ha reso ineludibile interrogarsi sulla natura degenerata del regionalismo italiano. Difficile immaginare una situazione peggiore. Uno scenario lose-lose, in cui, in piena tempesta pandemica, a perdere in credibilità e capacità d’azione sono contestualmente tutti gli attori in campo: persino la presidenza della Repubblica, inusualmente coinvolta nel vano tentativo di mitigare le bizze regionali.

Non c’è dubbio che il momento sia delicatissimo: la pandemia è fuori controllo, la ripresa economica compromessa, la crisi sociale in atto. Persino la tenuta psicologica dei cittadini è a rischio. Ma è proprio in momenti come questi che la saldezza delle istituzioni si fa risorsa decisiva. Una risorsa sulla quale, in questo momento, non possiamo far conto. E non soltanto per il ridicolo balletto che ha portato le regioni prima a rivendicare autonomia decisionale, poi a pretendere l’intervento dello Stato, quindi a lamentarsi delle misure adottate. Il problema è che tanta irresponsabilità politica non ha trovato argine nel governo, debole al punto da prestarsi ai giochetti dei presidenti regionali.

Che cosa, se non la propria debolezza (istituzionale, ancor prima che politica), ha sinora impedito all’esecutivo statale di mettere in riga le regioni ricorrendo ai poteri sostitutivi che gli sono attribuiti dall’articolo 120, secondo comma, della Costituzione? La norma è chiarissima – «il governo può sostituirsi a organi delle regioni … nel caso di … pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiede la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» -, così come chiarissimo è il pericolo derivante dall’emergenza sanitaria in atto.

E, invece, la soluzione è stata costruire una griglia di parametri, forniti dalle regioni stesse, attraverso cui misurare «oggettivamente» (non sia mai che si possa pensare che il governo intenda assumersi la responsabilità della scelta) la gravità della situazione in ciascuna regione. Insomma: la situazione sanitaria nelle regioni sarà considerata più o meno grave in base ai dati forniti dalle regioni stesse. Un caso da manuale di cattiva regolazione, in cui il controllato è il controllore di se stesso.

Per quanto strabiliante, è un fatto che le regioni possano oggi far affidamento su un surplus di credibilità istituzionale di fronte al quale lo Stato è in soggezione. Sono riuscite a imporre un regionalismo a senso unico, che opera solo quando va a loro vantaggio. E ciò, nonostante i tanti fallimenti nella gestione dell’unico vero compito cui devono assolvere: il governo del sistema sanitario. L’impreparazione con cui le regioni si sono fatte sorprendere dalla seconda ondata è imperdonabile. Come se il dramma della primavera si fosse svolto su un altro pianeta, le criticità di oggi sono le stesse di allora: difficoltà nell’effettuare e processare i tamponi, sistema di tracciamento saltato, assistenza territoriale deficitaria al limite della carenza, Rsa infettate.

Nemmeno sono state capaci di organizzare la campagna di vaccinazione antinfluenzale. Ancor prima, imperdonabile è aver ridotto la sanità a mero problema di costi, subordinando la tutela del più fondamentale dei diritti costituzionali a una logica aziendalista incapace di prendersi realmente cura delle fragilità derivanti dalle malattie.

Per anni ci è stato raccontato che il rafforzamento delle regioni a discapito dello Stato avrebbe avuto la virtuosa conseguenza di avvicinare le istituzioni ai cittadini. Le avrebbe rese più attente ai loro bisogni e più controllabili. Avrebbe innescato una competizione virtuosa, da cui sarebbe scaturita l’efficienza che sempre è mancata alle istituzioni statali.

Abbiamo rifiutato di riconoscere che stavamo, in realtà, dando vita a una competizione tra diseguali, a tutto vantaggio dei più forti (il recente caso che ha investito la sanità calabrese ne è l’ennesima conferma), e abbiamo voltato la testa quando la vicinanza ai cittadini si è tradotta – com’era prevedibile – in permeabilità alle pratiche della peggiore malapolitica, sino alla corruzione dei vertici di alcune delle più importanti regioni italiane.

Come se niente fosse, e come già accaduto con la riforma del Titolo V nel 2001, il Pd si è lanciato all’inseguimento della destra, facendosi fautore del pericoloso progetto dell’autonomia differenziata, volto a ulteriormente rafforzare il regionalismo e a legittimare la falsa retorica del residuo fiscale.Incredibile che il progetto sia ancora sul tavolo del ministro per gli Affari regionali e che nemmeno la pandemia lo abbia indotto a metterlo da parte.

È ora di dire basta. Spinto al limite del federalismo, il regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni. E, attraverso l’intreccio delle competenze, ha complicato e indebolito il sistema costituzionale, oltre ogni ragionevolezza. Invertire la rotta è diventato ineludibile.

 

il manifesto, 8 novembre 2020

 

 

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