Revelli, “Piazze tragiche, senza orizzonti”

30 Ott 2020

“Sono piazze tragiche, nel senso letterario del termine, perché sono espressione di situazioni nelle quali non si può scegliere tra un bene e un male, tra una soluzione positiva e una negativa. Nelle tragedie, purtroppo, si sceglie sempre tra due mali”. Marco Revelli, torinese, sociologo, di piazze ne ha viste tante, ma mai (o quasi) come quelle andate in scena lunedì sera: “Possiamo dire – sospira – di essere definitivamente fuori dal Novecento”.

Professor Revelli, cosa ci dicono queste “rivolte”?

Sono manifestazioni abbastanza diverse a seconda delle città, ma emergono due protagonisti: i primi, chiamiamoli esercenti, sono espressione di un’estrema fragilità sociale che ormai colpisce anche categorie apparentemente benestanti e che ha forse un precedente nel movimento dei Forconi del 2013. Non sono state manifestazioni di poveri, semmai di impoveriti, colpiti dalla prima ondata del virus e atterriti dall’idea di precipitare definitivamente con la seconda. Il nostro sistema economico e sociale era già gravemente malato prima, la pandemia ha solo portato in superficie il morbo. Poi ci sono gli altri, i protagonisti dei disordini, per certi versi simili ai Gilet gialli francesi, generalmente provenienti dalle periferie, ragazzotti che normalmente nel weekend fanno lo struscio di fronte alle vetrine degli oggetti del desiderio, scesi in piazza con una logica da riot americani, da una parte per esprimere rabbia, dall’altra per soddisfare desideri, come le immagini dell’assalto all’atelier Gucci dimostrano.

Perché parla di uscita definitiva dal XX secolo? 

Siamo di fronte al prodotto di classi sociali in decomposizione, attraversate da un forte risentimento e invidia sociale: la pancia della nostra società è un serbatoio esplosivo di rancore e mancanza di speranza. La logica è da guerra di tutti contro tutti. Con quale obiettivo? Ogni protagonista di queste proteste vede solo le proprie ragioni – anche valide per carità – ma la mediazione tra le proprie sofferenze e le sofferenze generali non compare mai. È una caduta di orizzonte. Sono piazza di destra? Sono molto esposte a tentativi egemonici di destra, che nel tutti contro tutti sguazza molto meglio di chi ragiona in termini di giustizia sociale ed eguaglianza, ma attenzione a liquidare il tutto come fascisteria delinquenziale, sarebbe un inutile esorcismo. Certo, ci sono gli ultras delle curve, ma preoccupiamoci del fatto che queste persone avvertano con chiarezza che esistono momenti di rabbia generalizzata, in cui sanno di avere campo libero e molte orecchie pronte ad ascoltarli.

Qual è il nemico numero uno?

Il cosiddetto decisore pubblico, come se chi governa avesse ora a disposizione decisioni in grado di risolvere i loro problemi. Ma purtroppo non ce li ha. Siamo in una condizione tragica, e nella tragedia c’è sempre un fatto che si compie rispetto al quale il comportamento degli uomini è destinato alla sconfitta. Si paga per propria colpa e di colpe ne abbiamo tante – alcuni di più, altri di meno – Il nemico dovrebbe essere il modello di vita e di organizzazione economica che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni, ma con il virus alle calcagna sono inutili elucubrazioni.

È possibile un dialogo?

Il dialogo richiederebbe di condurre a ragione le questioni, ma non mi pare sia questo il caso. La decisione politica in situazioni come queste (riaprire per non danneggiare, ma rischiare di aggravare l’epidemia) è destinata a sbagliare sempre e comunque.

Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2020

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