CSM, LO SCANDALO E LA SOLITUDINE DEL GIUDICE

02 Lug 2020

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Deliberare è di tanti (Parlamenti) e agire di pochi (governi), ma chi giudica è solo. È solo con la giustizia. Il prezzo da pagare all’indipendenza è il peso della responsabilità che grava solo su di lui (anche se fa parte di un collegio). Tuttavia, quando si parla di magistratura, perché è così facile generalizzare e fare d’ogni erba un fascio? Perché le generalizzazioni attecchiscono facilmente nell’opinione pubblica quasi che esista tra magistrati una sorta di responsabilità solidale?

C’è una ragione che, fatte le debite differenze, accomuna i magistrati ai politici e ai giornalisti. Sono una triade di professionisti con speciali doveri di integrità. I magistrati operano in nome della giustizia, i politici del bene comune, i giornalisti della verità: grandi valori terribilmente impegnativi, che non stanno nell’empireo delle idee pure e nei seminari dei filosofi, ma sono rivelati nell’agire quotidiano dei loro addetti. Coloro che appartengono a queste tre categorie sono giustamente gelosissimi dell’indipendenza. Possono essere lacerati all’interno dai più fieri contrasti ma guai a criticarne la “professionalità”, qualunque cosa questa parola voglia dire.

Si è subito sospettati di voler sovvertire lo stato di diritto, alimentare “l’antipolitica” o ingabbiare la libertà. Così scatta la suscettibilità di gruppo. Quest’ automatica reazione ha una sua ragione oggettiva, direi rivelatrice. Non risulta che altri professionisti, come chirurghi, ingegneri, idraulici, per esempio, si trovino nelle medesime condizioni. Ce ne sono di buoni e di cattivi, ma una diagnosi superficiale, un progetto edilizio basato su calcoli sbagliati, una riparazione avventata possono, sì, avere conseguenze sul prestigio professionale o determinare responsabilità giuridiche, perfino penali, ma non mettono certo in discussione “la chirurgia”, “l’ingegneristica”, “l’idraulica”. Tutto finisce lì.

Invece, per le nostre tre professioni non è così. Tutte e tre sono intaccate dai singoli cattivi comportamenti. Concentriamoci sui giudici. Sporcata “la giustizia”, ne risultano imbrattati tutti coloro che operano in nome suo. Mafiosi, collusi, politicanti, trafficoni, faccendieri, carrieristi finiscono nel calderone e si ha un bell’aggiungere la frase fatta: non tutti sono così; la maggioranza, anzi la stragrande maggioranza, non è così. Ma, anche costoro finiscono nel calderone. Insomma, i singoli episodi si riverberano su tutto l’ordine giudiziario, su “le toghe”, su “la casta” e non solo per la banale ragione che lo scandalo fa più notizia delle buone pratiche, ma per la più seria ragione che il virus è altamente diffuso nel grande corpo della magistratura.

I giudici amano rivestire i panni della dea Giustizia, con i loro riti e pompe solenni, ma quest’ immagine va rovinosamente in pezzi per tutti, quando uno solo provoca un cortocircuito tra rappresentazione e realtà. Tanto più pura è l’immagine, tanto più disastrosa è la falla. All’occorrenza, si può fare memoria del “caso Tortora” e delle sue conseguenze (referendum punitivo, legge sulla responsabilità civile). In breve si può dire che ogni parola detta, ogni comportamento singolo tenuto da chi “siede in giustizia” è dotato di una “eccedenza di significato”.

Perciò, a chi opera nel campo del diritto si addice la prima regola della morale kantiana: la “massima” del tuo agire sia uguale a quella che pretendi da tutti gli altri. Ora, di falle nella giustizia ce ne sono varie ma la più grave è che essa è, o sembra, caduta preda di cricche, congreghe, “giri” di potere che hanno sbocco nel Consiglio superiore della magistratura. Da qui “la riforma”, parola magica che scatena proposte, passioni, ambizioni e finisce per dare ulteriori occasioni a quei giri che si vorrebbero sconfitti. Si chiamano “correnti” e hanno il loro humus nell’Associazione nazionale magistrati e da lì intrattengono rapporti corruttivi con ambienti della politica interessati soprattutto alle nomine nei posti dirigenziali.

L’esperienza dimostra che nessun sistema è immune dalla corruzione. Una domanda antica è se contino di più le istituzioni o gli esseri umani. La risposta è che, certo, le istituzioni sono importanti, ma più importanti sono le persone. Le migliori istituzioni si corrompono per effetto di uomini cattivi, e quelle mediocri funzionano accettabilmente con persone buone (cattive e buone, comprendiamo il significato). Parliamo quindi di “riforme” ma senza illusioni, in fervida attesa del rinnovamento morale che tutti invochiamo.

Abbiamo accennato alla solitudine del giudice. Se deve qualcosa a qualcuno, per esempio il posto che occupa, e quel qualcuno è a sua volta espressione di improprie influenze, queste transitano a chi ne è beneficiato. Le correnti e le collusioni con certa politica non si fermano al Csm; l’inquinamento si scarica sui giudici che ne traggono vantaggio. Il Csm è un organo che collegiale è dir poco: è un parlamentino. Ventisette persone – 16 elette dai magistrati, 6 dal Parlamento (i “laici”), tutte inventariate per appartenenza a correnti e partiti (oltre ai tre membri diritto, il capo dello Stato e le due più alte cariche della magistratura ordinaria, a loro volta nominate dal Csm stesso).

Quando si radunano attorno alla tavola rotonda, scortati alle spalle non si capisce a quale titolo da una pletora di altre persone, sono proiezioni di strutture di potere esterne. I singoli, salve eccezioni, contano non in quanto tali ma in quanto mandatari di mandanti esterni e in quanto capaci di organizzare gruppi consiliari, con accordi e alleanze. Potrebbe essere diversamente? Lo scandalo che abbiamo davanti agli occhi non sta tanto nel metodo, quanto nella collusione con interessi di politicanti e nella qualità degli accordi.

E, allora, le riforme? Dovremmo essere ormai esperti abbastanza per non riporvi troppe speranze. Le (ri)forme non hanno la forza di cambiare la sostanza, mentre la sostanza ha la forza di addomesticare le forme. La discussione sui metodi di elezione del Csm è un buon esempio: a meno di passare assurdamente all’estrazione a sorte che è una miserabile confessione d’impotenza, ogni soluzione è malleabile, basta aspe ttare un po’ di tempo. Una modesta proposta potrebbe essere di ridurre i numeri.

Meno sono, meno ci sono posti da spartire e meno c’è bisogno e spazio per i “giri” di potere; meno c’è necessità di accordi tra gruppi, più c’è responsabilità dei singoli; più c’è responsabilità, più vizi e virtù personali sono difficili da nascondere. Si dirà: troppo lavoro sulle spalle dei restanti? Davvero? Se mai una proposta del genere venisse presa in considerazione, non sarà questa la vera ragione per respingerla.

la Repubblica, 2 luglio 2020

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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