Riace/Consiglio di Stato dà torto a Salvini, ‘Illegittimo chiudere i progetti d’accoglienza’

13 Giu 2020

L’allora ministro dell’Interno mise fine ai progetti dopo l’arresto del sindaco. Ma non avrebbe potuto farlo

Il ministero dell’Interno non avrebbe potuto chiudere i progetti d’accoglienza a Riace. A stabilirlo definitivamente è il Consiglio di Stato, che lo scorso 28 maggio ha respinto il ricorso avanzato dal Viminale dopo che, lo scorso anno, il Tar di Reggio Calabria aveva messo nero su bianco l’illegittimità di quella decisione. Partendo, intanto, dal mancato invio di una diffida vera e propria, tant’è vero che le criticità evidenziate dal ministero non avevano impedito la proroga del progetto. Ma soprattutto, il ministero dell’Interno non avrebbe mai contestato puntualmente al Comune le irregolarità rilevate, né avrebbe assegnato un termine entro cui risolverle. E nonostante questo, ad ottobre 2018, pochi giorni dopo l’arresto dell’allora sindaco Domenico Lucano, che di quel progetto era l’anima, il ministero dell’Interno allora guidato da Matteo Salvini aveva disposto il trasferimento dei migranti, riportando il paese di nuovo allo spopolamento.

«L’Amministrazione statale prima di adottare qualunque misura demolitoria deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi operando in modo da riportare a regime le eventuali anomalie», scrive il Consiglio di Stato, sottolineando come «il potere sanzionatorio/demolitorio è esercitabile solo se l’ente locale che si assume sia incorso in criticità sia stato avvisato, essendogli state chiaramente esposte le carenze e le irregolarità da sanare, gli sia stato assegnato un congruo termine per sanarle, e ciò nonostante, non vi abbia provveduto».

Insomma, l’atto del Viminale avrebbe dovuto essere chiaro nei richiami, consentendo così al Comune di Riace, laddove possibile, di risolvere le criticità. Analizzando la nota del 28 gennaio 2017, i giudici di Palazzo Spada hanno sottolineato «che tale atto non solo non soddisfa i requisiti di forma stigmatizzati dal Tar, ma neppure quelli sostanziali, non potendo ritenersi che abbia raggiunto il suo scopo». L’avviso avrebbe dovuto, infatti, rispettare tre requisiti: l’adozione da parte della Direzione centrale, l’individuazione di ogni inosservanza accertata e l’invito ad ottemperare alle inosservanze rilevate entro il termine assegnato, pena la decurtazione del punteggio.

Nel caso in questione, però, solo il primo dei tre requisiti è stato rispettato, presentando «gravi carenze in ordine ai successivi».La nota del 28 gennaio 2017, infatti, «contiene un elenco di criticità indicate sinteticamente con le lettere a),b), c) ecc. fino alla lett. k); per l’individuazione concreta dei rilievi si fa il generico riferimento alla nota del Servizio Centrale del 23 dicembre 2016 senza concretamente individuare i punti critici; con riferimento alle irregolarità amministrative e gestionali la nota è assolutamente generica limitandosi a richiamare la relazione della Prefettura».

Manca, inoltre, palesemente, l’indicazione del termine entro cui provvedere alla risoluzione delle criticità. «Se la ratio della diffida è quella di assegnare un termine per consentire all’ente locale di correggere le anomalie, è del tutto evidente che questo deve essere ragionevole e proporzionale allo scopo: tale può non ritenersi l’invito contenuto nella nota del 28 gennaio 2017 che impone una prestazione ad horas, pur in presenza di plurimi profili di irregolarità in precedenza evidenziati», scrivono i giudici. Inoltre, la chiusura del progetto è arrivata nel giro di circa un mese dall’adozione del provvedimento che aveva rifinanziato i progetti d’accoglienza per il triennio successivo, nonostante le criticità fossero già state manifestate in precedenza dal ministero dell’Interno: «ciò rende ragionevole ipotizzare che il Comune non avesse interpretato tale atto nel senso propugnato dal ministero appellante, in assenza di elementi formali idonei a farlo qualificare come invito/diffida, e cioè come l’atto propedeutico all’adozione del provvedimento di revoca del contributo assegnato».

Inoltre, il 26 gennaio 2017 la Prefettura di Reggio Calabria aveva redatto una relazione positiva sul “sistema Riace e ciò, nell’ottica del Comune, «avrebbe potuto incidere positivamente sulle valutazioni del ministero».

«Se si considera il contesto anche temporale nel quale la nota è stata trasmessa, il tenore dell’atto, la carenza di un formale espresso riferimento alla natura di avviso/invito ex art 27 c. 2 cit. e la mancata rispondenza ai requisiti di forma di tale specifico atto – affermano i giudici -, deve condividersi con il Tar che a tale atto “non può attribuirsi un valore diverso da quello di una nota volta richiamare l’attenzione dell’amministrazione comunale sull’esigenza di porre rimedio alle criticità riscontrate nel precedente triennio”, che peraltro non avevano comportato il rifiuto di ammettere il progetto al contributo per il triennio successivo. A ciò occorre aggiungere che come puntualmente rilevato dal Tar, nella nota del 28 gennaio 2017 non vi è alcun espresso riferimento alle criticità correlate alla banca dati che poi hanno comportato la decurtazione del punteggio e che le contestazioni relative alla gestione amministrativo-contabile dell’ente sono troppo generiche pur avendo assunto un effetto determinante ai fini della revoca del contributo».

Tutto ha a che fare con due note del Viminale: una del gennaio 2017, con la quale, in vista del nuovo triennio di finanziamento, poi approvato, il Comune venne sollecitato a comunicare le iniziative per «ricomporre con immediatezza tutti gli aspetti di criticità emersi durante le visite ispettive», e una di luglio 2018, con la quale venne comunicato l’avvio del procedimento di revoca del contributo. Per i giudici del Tar è «palesemente irragionevole e contraddittorio ritenere che, ad appena un mese dal decreto con il quale era stato rifinanziato il “sistema Riace”», il Viminale abbia diffidato l’ente ed avviato il procedimento per revocare i fondi. Come se un procedimento già chiuso fosse stato riaperto e modificato nel suo contenuto. Il tutto con un atto che, in ogni caso, «violerebbe» le regole di «trasparenza» e «partecipazione al procedimento amministrativo degli interessati», affermano i giudici.

Contestazioni «troppo generiche», anche quando ritenute decisive nella scelta di revoca, «e che, pertanto, avrebbero dovuto essere previamente contestate con ben altra puntualità». La critica dei giudici è forte: l’amministrazione statale si sarebbe limitata a vuoti formalismi procedimentali, senza rispettare «le forme che essa stessa, peraltro, si è data», prorogando in un primo momento il progetto e poi decidendo, per le stesse ragioni, di cassarlo. Con una «contraddittorietà», affermano i giudici, «manifesta», in quanto le difficoltà del “sistema Riace” erano note e risalenti, almeno, al precedente triennio, ma il procedimento ispettivo non si era concluso con la revoca del finanziamento, bensì con la sua proroga, ragione per cui il Comune non poteva che dedurne il superamento delle criticità. E i risultati di quelle ispezioni non sono stati inoltrati alla Commissione deputata alla valutazione dei progetti o, se ciò è stato fatto, non si è provveduto ad impedire la proroga del finanziamento, peraltro richiesto dal Comune il 30 ottobre 2016, chiaro «indice dell’illegittimità» dell’atto del ministero.

«L’autorizzazione alla prosecuzione del progetto può, dunque, trovare spiegazione solo con “la massima benevolenza dell’amministrazione”» che ha anche messo a disposizione del Comune «risorse umane e finanziarie», nonostante il caos gestionale ed operativo «che emerge con chiarezza dagli atti di causa». Insomma, «i riconosciuti ed innegabili meriti del “sistema Riace”», secondo i giudici, avrebbero «giocato un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità», che non potevano essere recuperate a posteriori, «per motivare la revoca, se non rinnovando per intero il procedimento». Alla luce della documentazione, insomma, «il progetto avrebbe dovuto essere eventualmente chiuso alla scadenza naturale. Averne autorizzato la prosecuzione, lasciando la gestione di ingenti risorse pubbliche in mano ad un’amministrazione comunale, per quanto ricca di buoni propositi e di idee innovative, ritenuta priva delle risorse tecniche per gestirle in modo puntuale ed efficiente, appare fonte di danno erariale», da segnalare alle autorità competenti.

E «che il “modello Riace” fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione – si legge – è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti». Insomma, quell’atto non aveva fondamento. Ma i progetti, ormai, sono chiusi e Riace è di nuovo vuota.

il Dubbio online, 7 giugno 2020

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