Donne e virus

20 Mag 2020

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

La rivista Forbes ha in questi giorni dato risalto all’ottima performance dei governi democratici a guida femminile nella gestione dell’emergenza Conoravirus. Non si tratta di una novità. Anche nel corso della crisi finanziaria del 2008, la rivista aveva messo in evidenza come le banche guidate da donne o che avevano un numero alto di donne nella direzione, avessero sofferto meno o in maniera meno drammatica la crisi delle banche gestite da uomini.

Dal 2008 è cominciata quindi una vera e propria campagna per bilanciare il numero dei generi negli organismi di responsabilità: oggi, le grandi banche hanno incrementato dal 15% al 33% il numero delle donne. Ancora più sorprendente è il dato relativo ai governi in età di Covid19: nel mondo, solo il 10% dei paesi è guidato da donne (ovvero il 4% della popolazione mondiale), eppure i dati mostrano quanto “robuste siano le differenze nella performance dei leader” –  le donne “sono statisticamente un’anomalia, tanto quanto i cigni neri” eppure dove governano le cose vanno meglio.

Ecco alcuni paesi a guida femminile più frequentemente menzionati (ora anche nelle nostre poco attente news nazionali): Germania, Finlandia, Islanda, Norvegia, Danimarca, Slovenia, Taiwan, Nuova Zelanda, Etiopia: piccoli e grandi paesi, tutti con un trend simile – maggiore abilità a far fronte alla crisi. La rivista Forbes non azzarda generalizzazioni né, ovviamente, suggerisce l’esistenza di un’essenza femminile dietro queste ottime perfomance.

Invece, ci propone una conclusione ragionevole e che ricorda l’argomento usato dal suffragismo del diciannovesimo secolo: questi dati ci dicono che val la pena ridurre gli ostacoli che si frappongono alle donne nella competizione per i ruoli dirigenziali. Del resto, ognuna delle donne nei paesi sopra menzionati ha operato molto meglio dei macho per antonomasia: Bolzonaro, Trump e Johnson.

Insomma, agli scettici (e ce ne sono ancora tantissimi) sulle donne competenti potremmo dire questo: poiché vi è solo da guadagnare nel provare, si provi! Come si prova, del resto, con ciascuno dei leader uomini che vediamo in circolazione. E questo vale soprattutto per paesi così arcaicamente mono-genere come l’Italia. In questi due mesi di emergenza Covid19 abbiamo assistito ad una passerella estenuante di “esperti”; eppure sappiamo che vi è una lista molto corposa di “esperte” (ci ricordiamo le tre ricercatrici del Laboratorio di Virologia dello Spallanzani che in febbraio isolarono il nuovo Coronavirus?).

Speravamo in un riequilibrio nella tanto sbandierata task force diretta dall’ex Ad di Vodafone, e invece 4 donne su un’equipe di 17 persone. Davvero pochino. E non ci si dica che non ci sono donne all’altezza di cotanti esperti. Prima di vedere in azione le donne che guidano i paesi sopra menzionati, quelle donne che oggi ammiriamo erano molto probabilmente una minoranza nei loro rispettivi partiti.

Eppure, è bastato metterle in evidenza per vederle. E per metterle in evidenza bisogna togliere gli ostacoli che ne impediscono la visibilità. Uno di questi ostacoli è l’abitudine al monocromatismo. Studi molto ben circostanziati mostrano come tra i fattori di esclusione e discriminazione vi è quello che viene dal non saper guardare al di fuori dei propri simili, perché ci abituiamo a vedere gli altri a partire dai nostri simili: questo vale per il genere come per le razze o le etnie e per l’età. Se non c’è diversità non vi è allenamento a vederla. E quindi i soliti noti si scelgono tra loro. Ovviamente sono i più bravi.

www.strisciarossa.it, 17 aprile 2020

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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