Il Coronavirus e la forza del capitalismo

01 Mag 2020

Qualche settimana fa – erano tempi in cui legittimamente si cominciava a fare i conti con quanto successo, dopo un primo momento di disorientamento e di “affidamento” – lessi un’intervista di un esponente confindustriale. Ovviamente difendeva la necessità urgente di riaprire tutti i luoghi della produzione. Ma alla domanda su cosa pensasse della gravità del contagio, la risposta suonava più o meno così: “certo, il virus è molto grave e molto pericoloso. Credo che gli operai debbano venire a lavorare nelle nostre imprese e poi debbano stare rigorosamente chiusi a casa in isolamento”.

Quella risposta è stata per me un presagio su ciò che rischia di accadere adesso e sull’impegno civile che dobbiamo mettere in campo. Non sono interessato alla politica del presente, né tanto meno a discutere di un virus o a farmelo nemico. Un virus non è un mio nemico. La sua apparizione appartiene alla natura delle cose, certo aggravata dall’irresponsabilità dell’uomo.

Per questo diffido di ogni interpretazione palingenetica di ciò che accade. All’apocalittica preferisco la fedeltà al mondo. Pur riconoscendo tutti gli elementi traumatici del coronavirus, non credo che tutto ciò che sta accadendo possa essere letto con i caratteri fascinosi dell’evento, cioè di qualcosa di irriducibilmente nuovo e a partire da cui nulla sarà più lo stesso. Quella risposta mi ha fatto intendere, nei segni indecifrabili del presente, tutti i caratteri della normalizzazione spietata del futuro che è già in atto. Così ho capito che ciò che è davvero in gioco è una politica del futuro. Ed è a questa politica del futuro che dovremmo cercare di connettere le nostre passioni collettive del momento.

Non c’è dubbio infatti che la paura sia la passione dominante. E che siamo tutti tentati dalla strategia del riccio, di fronte alla minaccia che spodesta la nostra presunzione e celebra le nostre fragilità individuali e collettive. Però la paura, come è noto, è una passione politicamente controversa. Essa infatti serve a legittimare la cessione della sovranità e, in questo senso, è paradossalmente ordinatrice. Lo stato di emergenza è percepito tramite l’imminenza della paura. Laddove siamo impauriti, accettiamo cose che non avremmo mai accettato in altri momenti.

Ma non possiamo restare immobili come il riccio per troppo tempo. Voglio con questo suggerire che, come per ogni trauma, anche per l’uso politico della paura ciò che conta è il suo rapporto con l’avvenire, più che con il presente. Perché la politica è il luogo in cui il presente viene fatto durare sempre un po’ di più, soprattutto adesso. E prende il posto del futuro, con tutto il carico di promesse, potenzialità e cose da fare e di cui assumersi responsabilità.

C’è dunque un primo uso politico della paura che interdice la nostra immaginazione del futuro. Per inciso, il paragone con l’ultima guerra mi pare impreciso anche per questo. Perché la libertà non era ciò che si rischiava di perdere, ma ciò che si rischiava di non conquistare. Non stava dietro di noi, ma davanti. Non nutriva una nostalgia, ma un’utopia. Invece la nostra paura si mescola oggi a una nostalgia di ciò che perdiamo, non a una speranza di ciò che potremmo avere.

Sperimentando una delle reazioni tipiche ai traumi, noi normalizziamo la nostra scena politica. Abbiamo nostalgia di un mondo che la paura ci fa stilizzare, rende fiabesco. Il tempo sospeso, così viene definito. Un presente che non finisce mai. L’affidamento eccessivo della politica alla tecnica finisce per sancire questa sospensione della paura. Perché la tecnica ci dice come stanno le cose, non dove andremo noi attraversando le cose che stanno così. Non è una scienza dei fini.

E i politici che seguono i tecnici finiscono per confermare il loro ruolo di subordinazione a cui si sono condannati negli anni. Amministrano le cose, non intendono nessun progetto di mondo o, come proverò a spiegare adesso, si limitano di nuovo ad aderire all’unico progetto di mondo che usa la paura e non si fa usare da essa. Così siamo tutti concentrati su ciò che succede adesso, pronti a giudicare, denunciare, giustificare, rappresentare, etichettare. Ma il punto vero è ciò che viene dopo. Non è la politica dell’emergenza, ma il progetto di futuro che nell’emergenza si sta profilando.

Il secondo uso politico della paura è proprio questo. Perché mentre la nostra paura ci immobilizza, qualcun altro si muove. Pensa al futuro, delinea le tendenze. Si muove, mentre noi stiamo immobili. Si può definire anche secondo questa frattura l’enigma moderno della irriducibile frattura tra “i governanti e i governati”. I primi hanno secolarizzato gli affetti e, per questo, hanno necessità che i secondi ne siano ancora sequestrati.

I governanti sono coloro che governano attivamente le passioni di tutti, le indirizzano, le condizionano. I governati sono invece coloro che subiscono le passioni di tutti, come gli eroi greci. L’ira di Achille somiglia molto più alla rabbia di chi teme in questo momento per la sua sopravvivenza, fisica e materiale. La rabbia del povero, del disoccupato, del non garantito, del non riconosciuto. In questo ordine di cose «non sono gli uomini ad avere le passioni ma piuttosto le passioni ad avere gli uomini» (Sloterdijk). Per questo – per stare dalla parte dei governati – oggi sarebbe politicamente più opportuna l’ira, piuttosto che la paura.

I governanti (che non sono affatto i politici, sopraffatti dalla paura), invece, hanno secolarizzato le passioni e le governano. Non somigliano per niente agli eroi greci (sarà per questo che difficilmente inducono ammirazione). È a loro che dobbiamo fare riferimento, se vogliamo capire dove stiamo andando. Quale futuro è in gestazione in questo presente.

A me non pare affatto un rinnovamento di un’idea di mondo, piuttosto una sclerotizzazione di ciò che era. Tutta la sorpresa con cui il coronavirus ha teso un agguato alle nostre società a me pare stia lentamente dileguandosi, nelle forme e nei modi in cui abbiamo reagito. Nessuna discontinuità all’orizzonte. Che il paradigma dello stato sociale sia stato sostituito da quello di uno stato poliziesco o – più prosaicamente – paternalistico, o che la solidarietà sia stata messa da parte per il dogma immunitario non mi pare una novità.

Certo, l’evento coronavirus avrebbe potuto mescolare le carte. Per esempio, la scoperta di quanto la vulnerabilità della singola vita sia affidata all’efficienza sociale della sanità pubblica (ciò che i filosofi con un certo grado di astrazione chiamano biopolitica) non avrebbe potuto (o forse dovuto) essere l’evidenza definitiva del fallimento di un progetto mondo? A me invece paiono due le tendenze più minacciose in atto che sfruttano le nostre paure.

La prima è molto semplice nella sua brutalità. La citazione da cui sono partito mi pare spieghi bene questa tendenza. Se c’è una cosa che bisogna riconoscere del capitalismo, è la sua straordinaria capacità mimetica. La sua distruzione creatrice. Che altro non vuol dire che questo: laddove noi siamo ancora soggiogati dalla paura e vediamo le macerie, il capitalismo vede già una riorganizzazione del mondo in grado di produrre ulteriore profitto.

Ecco perché le fabbriche non si chiudono, perché esse appartengono a un mondo a statuto speciale, letteralmente “a un altro mondo”. Questa teologia politica della produzione – eccola la secolarizzazione: non esiste più il doppio corpo del re, esiste ormai il doppio corpo del lavoratore – era già presente in Marx: «la volontà del capitalista consiste nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è parlare della sua volontà ma indagare la sua forza» (è inutile dire che questa citazione sottrae il mio discorso a ogni obiezione volontaristica.

Non sto dicendo che la colpa è del capitalismo, non sto giustificando alcuna teoria paranoica. Sto semplicemente sostenendo che tutte le volontà individuali sono mosse, in una società come la nostra, dalla forza che è intrinseca all’organizzazione capitalistica).

Qual è la forza del capitalismo oggi? È quella di possedere le chiavi dell’unico progetto di mondo che può permettere alla paura di distogliere lo sguardo dal passato e di immaginare il futuro. È il suo nucleo utopico (lo aveva capito alla perfezione Foucault). Così facendo il capitalismo usa la paura non come una passione nostalgica ma come una passione costituente. È il suo romanticismo a renderlo così forte. È per questo che chiedere proprio in questo momento non una sospensione della sensibilità costituzionale ma una maggiore attenzione ad essa vuol dire fare della Costituzione un progetto di futuro, e non semplicemente un oggetto della nostra nostalgia dentro l’immobilismo delle nostre paure.

La seconda tendenza discende dalla prima. A me pare che la minaccia più grande sia che l’evento coronavirus possa essere utilizzato, sfruttando le nostre paure, per ultimare il progetto di progressivo smantellamento della democrazia come argine alla predazione del capitalismo. E questo mondo a venire ha poco a che fare con il coronavirus. Lo normalizza, lo inscrive dentro un progetto che è in atto ormai da decenni.

E come si può riassumere questo progetto? Torniamo da dove siamo partiti. Che il lavoratore debba mettere in salvo il suo corpo lavorante dentro il dispositivo che lo renderebbe per grazia ricevuta immune dal virus – dispositivo che non è una app ma è il luogo della produzione – è un dato che si accompagna all’altro mondo, al mondo in cui l’immunità non è concessa. E dunque il lavoratore deve ridurre la sua umanità alla semplice riproduzione (ma non è di nuovo Marx?).

Il rischio è quello di usare l’evento del coronavirus per tornare alla crudeltà del primo capitalismo. Non è un caso che la sospensione riguarda le due grandi sfere che hanno limitato la grande trasformazione: la società e la democrazia. È da esse che dobbiamo ricominciare. Non possiamo rassegnarci all’idea che la società non può esistere.

Ma per farlo dobbiamo riconoscere l’inconsistenza politica della paura. Essa non serve a mobilitarci davvero, almeno fin quando non si accompagnerà a una idea di futuro. Come avveniva nella seconda guerra mondiale, quando la paura era commista alla speranza di una libertà futura. Bisognerebbe avere la stessa passione di don Chisciotte, trovare la forza di vedere ciò che non c’è ancora in ciò che c’è. Di trasformare i mulini a vento in giganti. E così sottrarre al capitalismo la sua forza, che usa le nostre paure per ridefinire i contorni del mondo e per sottrarci società e democrazia. Un grande romanzo politico da scrivere insieme, contro la paura. Il coronavirus non chiude le pagine, ma le apre.


* Sergio Labate è professore associato di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata e componente del Consiglio di Presidenza di LeG.

 Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2020

 

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