Per quanto strano possa apparire, la crisi attuale viene da lontano: dagli anni Settanta quando le élite americane e inglesi denunciarono unilateralmente il “compromesso storico” post-1945 e cercarono di recuperare margini di profitto mettendo sotto accusa il (modesto) welfare state che la Seconda guerra mondiale e le lotte operaie avevano imposto. Potremmo riassumere la storia degli ultimi 45 anni in tre fasi: l’inflazione degli anni Settanta, poi l’indebitamento pubblico degli anni Ottanta e Novanta e infine l’indebitamento privato, sfociato nella bolla finanziaria del 2008 (mutui immobiliari inesigibili). In questi anni il capitale ha acquisito una posizione sufficientemente forte per fare un salto di qualità attraverso lo svuotamento delle istituzioni democratiche e lo smantellamento dei diritti sociali, permesso dal trasferimento del potere politico in sedi supercontrollate (come il Congresso negli USA) oppure in sedi sopranazionali non rappresentative come l’Unione europea, gestite da élite tecnocratiche assolutamente fedeli.
Il potere del denaro ha permesso il passaggio dallo stato che tassava allo stato che si indebitava, dipendente dai propri potentissimi creditori come è apparso limpidamente nella gestione della crisi iniziata nel 2008, che è stata affrontata trasferendo risorse dei contribuenti a istituzioni finanziarie (le banche d’affari internazionali) che avevano sempre versato tasse minime, estraendo nel frattempo consistenti rendite dalla proprietà di titoli di stato. “I costi della crisi sono stati scaricati sulla gran parte dei cittadini, in modo da evitare le ire dei mercati, ovvero degli stessi rentiers del debito. In questo quadro, nella diplomazia finanziaria internazionale, il sostegno internazionale a uno stato debitore diventa un atto di solidarietà ai suoi creditori e al ceto superiore dello stato debitore, che trae anch’esso benefici dalle politiche di austerity” aveva scritto nel 2013 Paolo Feltrin.
La diminuzione della capacità dei governi di controllare l’economia, insieme all’incapacità sistemica di limitare la mercificazione del lavoro (si pensi solo alla gig economy) aggiunte all’onnipresenza della corruzione di ogni tipo hanno creato una società deistituzionalizzata o sottoistituzionalizzata, in cui i problemi possono essere stabilizzati solo per brevissimi periodi di tempo, in genere grazie all’improvvisazione locale. Un “interregno” (Gramsci) in cui gli individui sono privati delle difese collettive e lasciati a se stessi, indotti a cooperare con altri individui su una base ad hoc, guidata dalla paura, dall’avidità e da interessi elementari nella sopravvivenza individuale.
Questa situazione era precedente alla rivelazione portata dall’epidemia, che agisce come una “epifania” in cui possiamo vedere cose prima nascoste dall’ideologia o mascherate dalla miracolosa creazione di denaro da parte delle banche centrali. Gli interessi zero o il Quantitative easing sono semplicemente le etichette di una politica di creazione di moneta che ha avvantaggiato chi già possedeva beni mobili o immobili, senza concedere nemmeno le briciole a chi vive esclusivamente del proprio salario e paga un affitto.
Sappiamo, però, che non esiste al mondo denaro sufficiente per rianimare economie intubate come quelle dei paesi dove l’epidemia sta dilagando a ritmi impressionanti. “Chiudere” economie basate su complesse catene di valore che partono dalla California, passano dalla Cina e fanno approdare i prodotti finiti a Dubai piuttosto che a Berlino è inattuabile. Confinare in casa decine di milioni di persone per lungo tempo, oltre che probabilmente impossibile se non ricorrendo ai carri armati nelle strade, significa cancellare le compagnie aeree, le crociere, gli alberghi, i ristoranti e i bar. A soffrire saranno prima di tutto i poveri, i marginali, gli emigrati ma l’impatto sarà devastante anche per le classi medie occidentali, che la casa in proprietà, o almeno un lavoro a tempo indeterminato, avevano illuso.
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