Trump e il coronavirus

19 Mar 2020

Fabrizio Tonello

Quando il normalmente impassibile New York Times raccomanda di “avere a disposizione beni di prima necessità per almeno 14 giorni, la durata consigliata di una quarantena” forse c’è da preoccuparsi. Il giornale offre consigli sulla lista della spesa, come se una guerra nucleare fosse imminente: cibo in scatola, secco o surgelato; bevande; vitamine e medicine per raffreddore e influenza, oltre a tutti i farmaci per cui è necessaria una ricetta che normalmente si prendono. Le stesse cose che si dicevano durante la guerra fredda, quando il governo consigliava di costruirsi un bunker antiatomico in giardino o in cantina.

La guerra con la Russia poi non c’è stata, ma quella con il Coronavirus è iniziata la settimana scorsa, e sta andando malissimo: nonostante qualche occasionale rimbalzo, la borsa di Wall Street ha perso circa il 25% negli ultimi 20 giorni e sembra terrorizzata dagli effetti dell’epidemia sullo stile di vita a cui gli americani sono abituati. Se non si viaggia più le compagnie aeree cadranno come birilli, se non si va più al ristorante le catene del fast food rischiano il fallimento e se non arrivano più cinesi, italiani e giapponesi il settore turistico sprofonderà.

A pagare il conto per primi saranno naturalmente i lavoratori: non solo quelli della gig economy come Uber, che se non lavorano non guadagnano, ma anche chi ha un lavoro relativamente stabile: un quarto dei lavoratori del settore privato, circa 32 milioni di persone, non può prendere giorni di malattia retribuiti. Alla finanza non importa se muoiono 10, 1.000 o un milione di americani (le azioni delle aziende farmaceutiche stanno andando benissimo, soprattutto quelle che sono in corsa per trovare un vaccino) ma gli effetti collaterali sull’economia, invece, importano moltissimo.

Chi si trincera in casa non compra nuovi gadget elettronici, che del resto potrebbero diventare merce rara, se le catene di montaggio cinese non riprendono a sfornare telefonini al più presto. Per ora le azioni Apple hanno resistito, ma comunque hanno perso il 20% del loro valore in un mese. Rispetto alla Cina o all’Italia, il numero di casi di Coronavirus negli Stati Uniti sembra modesto: un migliaio di contagiati, qualche decina morti. La realtà è però diversa: un focolaio molto aggressivo nello stato di Washington, sul Pacifico (22 morti) e un altro a New Rochelle, nello stato di New York, ora dichiarata “zona rossa”, con oltre 100 casi, per il momento senza vittime confermate.

Soprattutto, ci sono decine di migliaia di americani che potrebbero già essere stati contagiati, ma non entrano nelle statistiche, perché non hanno ancora fatto il tampone. In un paese di circa 340 milioni di abitanti, i test effettuati a ieri erano circa diecimila: un po’ perché le capacità di eseguire i test sono molto inferiori alle necessità e un po’ perché i costi imposti dalle compagnie di assicurazione sanitaria scoraggiano fortemente le persone a reddito medio-basso.

Come si sa, gli Stati Uniti non hanno un sistema sanitario pubblico universale (l’unico candidato alla presidenza che lo propone è Bernie Sanders) e le conseguenze si vedono: ospedali che rimangono senza mascherine per il proprio personale, malati che devono andare tre volte al pronto soccorso prima di ottenere un test, pazienti a cui l’assicurazione privata manda un conto di 800 dollari per essersi recati appunto al pronto soccorso.

Ciliegina sulla torta: Donald Trump che cerca in ogni modo di minimizzare la gravità dell’epidemia, attaccando i democratici e tentando di mettere il bavaglio alle autorità sanitarie. Ovvero: fischiettando allegramente in marcia verso l’abisso. L’unica buona notizia in tutto ciò è il fatto che i mesi che ancora mancano alle elezioni del 3 novembre permetteranno agli elettori di metabolizzare l’incompetenza e il cinismo dell’amministrazione Trump e di eleggere un democratico (qualsiasi democratico) alla presidenza.

il manifesto, 17 marzo 2020

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