QUANDO IL FINE NON GIUSTIFICA I MEZZI. La REVISIONE COSTITUZIONALE CHE TAGLIA IL NUMERO DEI PARLAMENTARI

15 Feb 2020

La Costituzione italiana è mutata nel corso dei suoi settantuno anni, sia attraverso revisioni formali sia mediante adattamenti del tessuto politico-sociale che ne evidenziano la benefica elasticità, ma è pur vero che quando si mette mano alla stessa, è necessario porsi delle domande in relazione allo spirito che animò i nostri Padri e Madri costituenti nella scelta di determinate formule e istituti.

Cosa animò i Costituenti quando posero al centro della Costituzione principi-cardine quali la sovranità popolare, la cui carica rivoluzionaria fu temperata dalla solidarietà sociale che legava insieme tutti gli individui nell’idea di una Repubblica eguale e inclusiva?

Indubbiamente la volontà di stabilire una cesura rispetto al recente passato e di edificare un nuovo sistema fondato sulla centralità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali e sulla garanzia degli equilibri costituzionali in funzione anti-autoritaria.

La Costituzione repubblicana optò così per una forma di stato democratico-pluralista e per una forma di governo parlamentare: pluralismo politico e pluralismo istituzionale sono tutt’uno con la centralità che sin da subito si intese assegnare al Parlamento, come punto focale della decisione politica, come luogo istituzionale di condivisione e di compromesso politico che riassumesse le istanze plurali della società civile.

Si scelse, pertanto, per la neonata Repubblica, affinché la rappresentanza politica fosse la “fotografia” della società civile, il sistema elettorale proporzionale, senza però cristallizzarlo nella Costituzione: si lasciava alla responsabilità della classe politica la scelta della variante proporzionale da adottare per la formula elettorale, nella piena consapevolezza che la società civile italiana che emergeva dal conflitto mondiale doveva essere rappresentata nelle sue poliedriche virtualità. Data per scontata, dunque, la scelta costituente per il sistema proporzionale, si affidò alla discrezionalità del legislatore il compito di scegliere la formula elettorale che sapesse tradurre in modo fedele le opzioni costituenti: la scelta iniziale si attestò, infatti, su un sistema proporzionale puro con preferenza.

Il successivo passo verso il sistema maggioritario attuato con la svolta referendaria del 1993, che si allontana progressivamente dal modello democratico consensuale alla ricerca dell’imitazione di formule democratiche estranee allo spirito della nostra carta costituzionale, è storia. Basti qui richiamare la differenza tra modello Westminster e modello consensuale di democrazia, teorizzato dal politologo olandese Arendt Lijphart, per comprendere quanto difficile, se non impossibile, sia il trapianto di formule e sistemi così diversi e decontestualizzati: al primo cosiddetto “modello Westminster”, appartengono le democrazie caratterizzate da predominanza del potere esecutivo su quello legislativo (sebbene le recenti vicende collegate alla Brexit fanno pensare a una revanche del Parlamento), forte centralismo amministrativo, governo caratterizzato per lo più da maggioranze mono-partitiche e sistema elettorale maggioritario. Al secondo – il “modello consensuale” – appartengono i sistemi caratterizzati da equilibrio tra esecutivo e legislativo, con forte funzione di indirizzo e controllo di quest’ultimo sull’attività del governo, un sistema multipartitico alimentato da sistema elettorale proporzionale, decentramento amministrativo e autonomie locali.

Il taglio lineare del numero dei parlamentari da 915 a 600 si pone al di fuori dello spirito costituente.

Si legge, infatti, nel resoconto della seduta del 27 gennaio 1947 dell’Adunanza Plenaria della Commissione per La Costituzione presieduta da Ruini che l’obiettivo dei costituenti era di determinare una rappresentanza più ampia e più forte del passato che rifuggisse dalle tentazioni tipiche delle forze anti-progressiste di esautorazione degli organi rappresentativi. Tanto che fu fissato il rapporto di un deputato ogni 80.000 abitanti o frazione superiore a 40.000, e di un senatore ogni 200.000 abitanti, o frazione superiore a 100.000 abitanti, optando per una rappresentanza di tipo incrementale, ossia che mutasse nel numero dei rappresentanti al variare della consistenza della popolazione (il calcolo fu fatto sull’ultimo censimento dell’epoca che calcolava 42 milioni di italiani).

Fu nel 1963 che con una revisione costituzionale si cristallizzò il numero dei parlamentari in 630 deputati e 315 senatori, rendendo ininfluente sulla dimensione del Parlamento il mutamento della consistenza demografica del paese.

L’Assemblea costituente valutò anche la questione dei costi, ritenendolo “un argomento debole e facilone” tipico di una tendenza conservatrice e reazionaria, considerato che “Anche se i rappresentanti eletti nelle varie camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte a un bilancio statale che è di centinaia di miliardi l’inconveniente non sarebbe tale da rinunciare ai vantaggi della rappresentanza” (on. Terracini). Anzi, Terracini sottolinea la “riservatezza” nella determinazione del bilancio dell’Assemblea costituente, rimarcando l’opportunità di contenere le indennità dei rappresentanti.

L’assemblea costituente si pose anche la questione dell’incidenza del numero dei parlamentari sull’efficienza decisionale: sempre Terracini, nella citata seduta, rammenta che l’elezione dei parlamentari è la prima fase, quella della selezione della rappresentanza, che deve svolgersi entro limiti ma non troppo ristretti; la seconda fase quella della decisione si svolge all’interno delle Assemblee, dove da parte di ciascun parlamentare con il proprio voto avviene una seconda scelta orientata “dalle particolari attitudini dei componenti, via via che essi hanno occasione di mettersi in rilievo”.

In questa prospettiva il taglio dei parlamentari è fuori dallo spirito della Costituzione, per le seguenti ragioni:

– La cristallizzazione del numero dei parlamentari attuata con la riforma del 1963 opera una costante, ineluttabile e naturale riduzione della rappresentanza se consideriamo l’aumento demografico degli ultimi settant’anni e, si auspica, quello a venire (nel 1963, quando fu fissato il numero dei parlamentari, il rapporto per i deputati era 1/80.000; oggi è 1/95.0000; per i senatori era 1/133.500, oggi 1/190.500);

– L’argomento della efficienza decisionale, è mal posto, dipendendo non tanto dalla dimensione del parlamento ma dalle logiche conflittuali che dominano da oltre vent’anni la scena politica italiana e dall’abuso che in un simile contesto viene fatto della decretazione d’urgenza e del ricorso alle questioni di fiducia, addebitando alla Costituzione i mali e le degenerazioni della classe politica italiana;

– Il taglio dei costi della politica è un argomento posto non correttamente ma solo in funzione demagogica, poiché accanto alle indennità dei parlamentari vanno considerati i costi fissi delle strutture e del personale tecnico-amministrativo che sono incomprimibili.

La drastica mutilazione del Parlamento, se non viene letta nella sua complessa relazione con l’ordinamento costituzionale, non rende conto dello sconquasso che produrrà nell’equilibrio della forma di governo parlamentare.

Il fine della governabilità, infatti, è un obiettivo politico importante che si riflette sul piano sociale ed economico, ma esso non può essere perseguito in dispregio della rappresentanza o come fine autonomo rispetto alla stessa, che al contrario, non è un mero obiettivo politico bensì un principio fondamentale che connota e innerva la nostra Costituzione repubblicana e antifascista.

L’ancillarità dell’obiettivo della governabilità rispetto alla rappresentanza è stata evidenziata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014 in materia di legge elettorale:
– “In ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa” come avviene in sede di approvazione di una revisione costituzionale al pari di una legge elettorale (la legge elettorale è stata configurata come una legge “a contenuto costituzionalmente necessario” dotata di una forza passiva peculiare rispetto alle leggi “normalmente” ordinarie per la quale il referendum abrogativo può essere dichiarato ammissibile solo a condizione che l’abrogazione produca una “normativa di risulta”, v. sent. n. 89/1987), la Corte deve “verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale” (cons. 3.1 in diritto);

– Il legislatore, pur nell’esercizio della sua ampia discrezionalità, non può comprimere illimitatamente la “rappresentatività dell’assemblea parlamentare” in modo “incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di una caratterizzazione tipica ed infungibile” (sent. 106 del 2002) tra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e di controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali” (cons. 3.1 in diritto).

Il richiamo nella sentenza n. 1/2014 alle garanzie costituzionali impone di considerare l’impatto che la riduzione del numero dei parlamentari produce sugli istituti e le istituzioni di garanzia:

1) il procedimento di revisione costituzionale (art. 138 Cost.) prevede un doppio circuito deliberativo, il secondo dei quali potrebbe precludere lo svolgimento del referendum costituzionale qualora raggiungesse la maggioranza dei due terzi. I costituenti stabilirono detto quorum avendo ben presente che esso, operando in un contesto di sistema elettorale proporzionale e con un congruo numero di parlamentari, avrebbe consentito alle minoranze di svolgere la propria funzione di opposizione costruttiva e di concorrere in modo determinante all’approvazione della revisione costituzionale. La riduzione del numero parlamentare comprime e potrebbe anche sopprimere la possibilità di influenza delle minoranze e, se accompagnata da una legge elettorale maggioritaria o proporzionale “a vocazione maggioritaria” (come nel caso dell’opzione per alte soglie di sbarramento), taglierebbe fuori dal circuito decisionale costituzionale le minoranze, indebolendo il procedimento aggravato di revisione e vanificando il principio di rigidità costituzione e il pluralismo politico;

2) il capo dello Stato è eletto dal Parlamento in seduta comune a maggioranza dei tre quinti per i primi tre scrutini e a maggioranza assoluta per i successivi. La riduzione di un terzo del numero dei parlamentari riduce anche in questo caso il rapporto di forza delle minoranze e consegna l’elezione del Presidente della Repubblica alla contingente maggioranza; inoltre i tre delegati regionali avrebbero un’incidenza nell’elezione del Presidente della Repubblica molto maggiore rispetto al passato, potendone influenzare l’elezione;

3) la drastica riduzione del numero dei parlamentari influisce anche sul ruolo del Presidente della Repubblica: non va tralasciato che l’art. 90 della Costituzione prevede la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato a maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune: con la riduzione dei parlamentari occorrerebbero solo 301 parlamentari contro i 476 di prima. Questo nuovo assetto costituzionale potrebbe spingere verso la formazione di una maggioranza monolitica che ponga il Presidente della Repubblica in posizione di subordinazione rispetto al Presidente del consiglio dei ministri che è espressione di quella maggioranza, con quali prevedibili infausti esiti è facile prevedere qualora questa revisione fosse accompagnata da una riforma elettorale in senso maggioritario, che emarginando il ruolo delle minoranze tanto nella scelta quanto nella permanenza in carica del Presidente della Repubblica finirebbe con il vanificare il ruolo di garante dell’unità nazionale che è assegnato alla figura del Capo dello Stato dall’art. 87 della Cost.

4) analogo discorso vale per l’elezione dei cinque giudici costituzionali, eletti dal Parlamento in seduta comune e per i cinque giudici costituzionali nominati dal Presidente della Repubblica: venendo eletti dal Parlamento in seduta comune si manifestano le medesime criticità evidenziate per l’elezione del Presidente della Repubblica;

5) i cinque senatori a vita potrebbero anch’essi condizionare tanto il procedimento legislativo quanto quello di revisione, come pure l’elezione degli organi di garanzia (PdR e Corte costituzionale) considerato che il rapporto 5/600 ha un peso maggiore di 5/945;

6) l’aumento della dimensione delle circoscrizione elettorali – che per l’elezione del Senato cesserebbero di coincidere con le regioni – diluirebbe il legame tra eletto e territorio di riferimento, con la conseguenza che le regioni più piccole non sarebbero rappresentate, altre sarebbero o sottorappresentate (quelle di medie dimensioni) e altre ancora sovrarappresentate (quelle più popolose e geograficamente più estese). Con la conseguenza che si rafforzerà sempre di più il legame tra eletti e partito di riferimento, producendo il consolidamento di quella logica clientelare che al contrario la riforma si proporrebbe di superare.

7) Infine, è fuorviante l’assunto per il quale la riduzione del numero dei parlamentari snellisca e velocizzi il processo deliberativo del Parlamento: l’assunto è smentito dai tempi stessi della riforma costituzionale, che presentata nel febbraio del 2019 è stata approvata con procedura aggravata ad ottobre scorso e pertanto l’affermazione che in Italia il numero dei parlamentari allunghi i tempi dell’approvazione delle leggi non ha fondamento essendo smentita dallo stesso iter di riforma costituzionale. E come dimostrano i 14 giorni che furono necessari all’approvazione della famigerata legge Fornero. Questo conferma che sul piano politico sono le divisioni tra e nei partiti che allungano i tempi della decisione e certamente non il numero dei parlamentari! Inoltre sul piano tecnico, ad una lettura attenta degli artt. 70-72 della Costituzione, dedicati al procedimento legislativo, nulla impedisce in sede di Regolamenti parlamentari di predisporre strumenti deliberativi che consentano il superamento della “navette”: guardando alla Costituzione francese, il procedimento di approvazione della legge nasce bicamerale paritario e in terza lettura sono previsti dei meccanismi di superamento dello stallo parlamentare (vote blocqué, commissione mista paritetica di conciliazione, ecc.). D’altra parte l’art. 72 Cost. della Costituzione italiana già prevede con una formula molto ampia, da definire nelle modalità applicative in sede regolamentare, che il regolamento parlamentare “Può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari“. Ben si dovrebbe dunque mettere mano seriamente a una riforma organica dei Regolamenti parlamentari, che la Costituzione stessa prevede come meccanismo di flessibilizzazione e snellimento del procedimento legislativo. E’ chiaro, quindi, che il taglio lineare dei parlamentari nulla ha a che vedere con la velocizzazione del procedimento legislativo!

8) Sebbene l’Italia abbia il maggior numero di parlamentari elettivi in Europa, questa lettura non considera il rapporto elettori/eletti dei diversi paesi europei, alcuni dei quali con parlamenti monocamerali. Lo stesso Servizio studi del Senato ritiene che «più agevole a rendersi è la comparazione tra le Camere “basse” […] che sono tutte elettive dirette». Così, da un confronto più congruo (Camere Basse in rapporto alla popolazione) si riscontra che, già in linea con gli altri grandi Stati europei, con questa riforma l’Italia sarebbe confinata nelle ultime posizioni.

Ma allora, da dove nasce tutto questo consenso popolare a una riforma che invece dovrebbe più scontentare che accontentare?

Indubbiamente pesa l’erronea convinzione della riduzione della spesa. La battaglia contro i “costi della politica” è, infatti, carica di emotività sociale.

Tuttavia, a questo riguardo preme ricordare che tale spesa “dev’essere messa in rapporto al bilancio” (Luigi Einaudi, II Sottocommissione, verbale del 18.9.1946): e il risparmio realizzato dal taglio dei parlamentari nel suo complesso ammonta ad appena lo 0,007 della spesa pubblica italiana. Un cappuccino a testa all’anno!

Solo come monito va ricordato che all’indomani della seconda guerra mondiale i nostri padri e madri costituenti, pur vivendo un momento tragico di miseria del nostro paese, decisero per il nostro futuro di “investire” sulla rappresentanza, sul ruolo forte del Parlamento e sulla prossimità dei parlamentari ai cittadini.

Quello che pesa sull’opinione pubblica è la progressiva degenerazione della classe politica sempre più prona ai leader di turno e alle lobby di potere e ritenuta responsabile della perdurante crisi economica in cui versa l’Italia.

Ma siamo certi che la panacea di tutti questi mali sia la drastica amputazione della rappresentanza?

Perché 400 deputati e 200 senatori? Se il numero è irrilevante, perché non 300 e 100?

Invero, i numeri, per i Costituenti come abbiamo visto in precedenza sono stati veramente significativi e neanche la comparazione con altri Paesi europei sembra accreditare la bontà della riforma.

Ad esempio, in Germania, che è un termine di paragone spesso evocato sebbene le due esperienze presentino eleti difficilmente comparabili a cominciare dalla forma di Stato (federale, la Germania, e unitaria, l’Italia) che imprime una differente configurazione alla rappresentanza delle seconde camere (territoriale, la Germania, e nazionale, l’Italia), il rapporto numerico tra eletti (al Bundestag, omologo alla nostra Camera dei deputati) ed elettori (da tenere distinti dagli abitanti) è di 1 per 105.000: una differenza di quasi 23.000 elettori rispetto ai rapporti numerici che si prevedono all’esito della riforma italiana!
Senza considerare peraltro che la Germania è un paese socialmente più omogeneo del nostro e con una forte rappresentanza territoriale garantita dal Bundesrat, la Camera dei Länder, sicché non ha le stesse esigenze pressanti di rappresentanza delle diversità che ha invece la realtà italiana, più disomogenea socialmente e geograficamente.

La dimensione dei Parlamenti non può essere decontestualizzata dalle caratteristiche politiche e sociali del Paese nel quale operano (la comparazione come mera trasposizione di dati e si istituti da un paese all’altro ha dimostrato la propria inefficienza) e soprattutto, per quel che ci riguarda da vicino, il taglio dei parlamentari è stato adottato senza alcun paracadute, ma solo con una “delega in bianco” di buone intenzioni politiche si auspica non vengano disattese.

Inoltre, tale proposta non va letta isolatamente ma in un complesso unitario con l’altra proposta di revisione costituzionale sul cd. referendum propositivo, altro cavallo di battaglia del M5S, mostrano un fine diverso da quello proclamato: la marginalizzazione del Parlamento sino alla sua anestetizzazione a servizio dei leaders di partito (realizzando il sogno della Casaleggio &C.). Introducendo, in tal modo, una sorta di mandato imperativo mascherato che corrode dall’interno e surrettiziamente il midollo della democrazia rappresentativa e mette a rischio i sistemi dei pesi e contrappesi istituzionali, come si è cercato di evidenziare più sopra..

Al contrario, resto convinta che in un sistema democratico rappresentativo vada preservato e rafforzato il ruolo del Parlamento (ci è arrivata anche la Francia con la riforma del 2008) e dei singoli parlamentari in quanto rappresentanti della Nazione, come recita l’art. 67 della nostra Costituzione, che perpetua quel principio di indipendenza decisionale del singolo parlamentare che fu conquistato dai rivoluzionari francesi con l’abolizione dei mandati imperativi degli Stati generali nella riunione dell’Assemblea nazional-costituente della notte del 4 agosto 1789.

A meno che non si intenda mutare il cuore della forma di Stato, trasformandolo da Stato unitario a democrazia rappresentativa in Stato federale a democrazia diretta.

Ed è quello che si sta ponendo in essere con il pacchetto complessivo di riforme che il Governo Conte bis intende, nonostante gli allarmi che da più parti provengono, comunque portare avanti: la riduzione del numero dei parlamentari è solo un primo passo del disegno di stravolgimento della Costituzione repubblicana, ad onta del risultato del referendum del 2016, con il quale il popolo italiano ha scelto la Costituzione repubblicana.

Sul piatto delle riforme costituzionali c’è:

1) la riduzione del numero dei parlamentari, che produrrà l’effetto di sotto-rappresentazione di intere aree del paese, in particolare delle aree marginali che non vedranno più rappresentati i propri interessi; e questo si pone in collegamento diretto con la riforma delle autonomie, che i partiti avranno più facilità di realizzare venendo meno la funzione di opposizione della rappresentanza delle aree più deboli;

2) l’autonomia differenziata, che così come congegnata renderà una parte del Paese definitivamente dipendente e lasciato al suo destino di sottosviluppo economico e infrastrutturale, radicando quella scelta compiuta sin dall’Unità d’Italia di concentrare le risorse e gli investimenti nella parte da sempre più produttiva del Paese e che saà amplificata dal taglio della rappresentanza;

3) la riforma del sistema elettorale che se non fungerà da contrappeso – attraverso la formula proporzionale pura – taglierà fuori dalla rappresentanza le forze politiche minoritarie;

4) la riforma sull’elezione diretta del capo dello stato avanzata dalle destre;

5) l’introduzione del cd. referendum legislativo approvativo, che confinerà il Parlamento nel ruolo di camera di registrazione di decreti-legge e di disegni di legge in modo molto ma molto più accentuato di quanto accada oggi e concentrando il centro della decisione politica nelle mani di due o tre leader di partito.

Il rischio di involuzioni autoritarie è dietro l’angolo.

E non parlo di involuzioni formali, di un ipotetico e surreale ritorno del fascismo, ma di quelle cripto-involuzioni striscianti e silenziose che operano sul piano dello svuotamento del potere decisionale dei cittadini e degli istituti di garanzia, comprimendo i diritti e le libertà fondamentali garantiti dalla Costituzione repubblicana.

Il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari ci attende al varco, con tutte le incognite che accompagnano ogni consultazione di democrazia diretta, e ancora una volta il popolo italiano è chiamato, dopo poco più di tre anni, a salvaguardare gli equilibri costituzionali, come avvenuto il 4 dicembre 2016, affinché non si incorra nell’eccessivo affidamento nella classe politica che fece sottovalutare l’effetto dirompente della riforma del Titolo V, che fu approvata con il referendum costituzionale del 2001 e che oggi, per come applicata, rischia di mettere in discussione il principio di eguaglianza dei diritti fondamentali.

Quella volta la riforma passò nell’indifferenza generale, e aprì la strada alle ripetute proposte di modifiche alla Costituzione non ispirate da un fine politicamente condiviso, bensì dagli interessi delle contingenti maggioranze al governo, producendo de facto un indebolimento del principio di rigidità Costituzionale e dell’idea dell’indisponibilità di quei principi fondamentali, tra i quali spicca il principio rappresentativo, vero totem della sovranità popolare.

La partita che si gioca con il referendum sul taglio dei parlamentari è fondamentale e occorre sensibilizzare il corpo elettorale sul fatto che dietro agli slogan politici – molto suggestivi perché in grado di alimentare sentimenti popolari di rivalsa nei confronti di una classe politica che non ha brillato nel rispondere alle istanze sociali sempre più pressanti e pressate da una crisi economica che sembra non aver mai fine – si nasconde il tentativo di ridurre sempre di più lo spazio della rappresentanza a vantaggio di elites politiche in balia di movimenti fluidi e de-ideologizzati, diretto prodotto della deriva maggioritaria del sistema politico e posti al di fuori del circuito costituzionale con esiti, sul piano della tenuta del sistema, del tutto imprevedibili.

Alla fine, il quesito reale cui i cittadini saranno chiamati a rispondere è quale peso politico intendono dare al loro voto, che i “novelli costituenti” hanno quantificato in un cappuccino a testa all’anno. Davvero valiamo così poco?

(*) Marina Calamo Specchia è docente di Diritto Costituzionale Comparato all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro.

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