Landini, “Il Paese è fermo perché ha smesso di dare valore al lavoro”

14 Nov 2019

ROMA – La malattia dell’ economia italiana si chiama «svalorizzazione del lavoro», dice Maurizio Landini, segretario generale della Cgil. È la chiave che il leader sindacale propone per leggere la nostra lunga stagnazione: Pil fermo, debito record, disoccupazione in aumento, crescita delle diseguaglianze, distacco tra il Nord e il Sud. Ed è partendo da lì che si arriva anche alla nuova grande crisi dell’ Ilva. Landini definisce «inaccettabile» la posizione di ArcelorMittal che ha denunciato 5 mila lavoratori in esubero; chiede alla multinazionale indo-francese di rispettare gli accordi e invita il governo a fare altrettanto ripristinando il cosiddetto “scudo penale” per i manager impegnati nei processi di risanamento ambientale.

Landini, perché l’economia italiana continua ad essere immobile?
«Di getto le risponderei: per la massa di evasione fiscale, per la corruzione capillare, per una diffusa cultura che cerca in qualunque occasione lo scambio. Così i salari scendono, così calano gli investimenti e l’ unica cosa che aumenta sono i risparmi fermi sui conti correnti in banca».

Perché, secondo lei?
«Perché la gente non ha fiducia. Ma così non si fa sistema».

Colpa della politica? Non è un po’ semplicistico dare la colpa ai politici?
«Guardi, la politica ragiona a domattina. È sotto gli occhi di tutti.
Serve un’ etica di comportamento, avere una visione e valori forti. Spesso tutto questo non si vede. Sa qual è la differenza tra noi e i Paesi europei come la Francia e la Germania? Il fatto che loro sono capaci di fare sistema. E se guardo dalla mia posizione di sindacalista, di rappresentanza di chi lavora, penso che la deriva sulla svalorizzazione del lavoro nasca, oltre che dallo sposare il liberismo, proprio da lì. Da una mancanza di visione di sistema al cui centro c’ è il lavoro, che ha condotto alla precarietà, all’ aumento delle distanze sociali producendo diseguaglianze sociali e territoriali».

Scusi, ma in tutto il mondo occidentale, Germania e Francia compresi, i mercati del lavoro sono diventati molto flessibili. L’Italia non è un’ eccezione.
«Sì, ma la nostra precarietà non ce l’ ha nessuno. E qui sta anche la ragione della bassa produttività che ci trasciniamo da decenni, del calo progressivo degli investimenti pubblici e privati, e dell’ assenza di politica industriale. Chi investe se chi lavora non vale? E se il lavoratore conta poco e non lo si forma come fa ad accrescere la sua produttività?».

Insisto: ma davvero attribuisce le responsabilità solo alla politica? E gli imprenditori? E le resistenze del sindacato?
«Certo che non è solo colpa della politica. Gli imprenditori? In pochi hanno continuato ad investire e pochi hanno accresciuto la loro dimensione. Molti, invece, non hanno preparato il ricambio generazionale o hanno venduto all’ estero. Le imprese piccole non bastano per rimettere al centro il valore del lavoro. Dove sono le nostre grandi imprese? Cosa abbiamo nei settori strategici?Le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno spesso avuto e hanno più attenzione ai dividendi che agli investimenti. Sono nate multinazionali tascabili, pur importanti, ma se si pensa oggi alle grandi imprese la maggioranza sono pubbliche, Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Poste, tra le altre».

Perché sono rimaste solo le ex partecipazioni statali?
«Hanno fatto la differenza gli investimenti fatti».

Lei considera positivo il ruolo dello Stato nell’economia. Lo dice pensando anche ad una nazionalizzazione dell’ Ilva?
«A dirlo non sono solo io. Per l’ Ilva, poi, c’ è una cosa sola da fare: rispettare gli accordi sottoscritti. L’ azienda ha firmato un’ intesa che prevede garanzie per i posti di lavoro, un piano industriale con 4 miliardi di investimenti fino al 2023».

Sì, ma c’ è una profonda crisi nel mercato dell’acciaio. Quel piano sembra superato.
«È stato firmato un anno fa. Tutto era largamente prevedibile, il mercato della siderurgia ha alti e bassi, da sempre. E per gestire le crisi temporanee ci sono gli strumenti adatti, dalla cassa integrazione ai contratti di solidarietà. Per questo dico che è inaccettabile una modifica unilaterale dell’ accordo da parte di Mittal, che – vorrei ricordare – non è Cappuccetto Rosso persa in un bosco sconosciuto».

E il governo? Lo scudo penale faceva parte dell’ accordo, ora non c’ è più ed è una delle ragioni all’ origine della decisione di Mittal.
«Quello che viene chiamato impropriamente scudo penale va ripristinato. Era già in vigore dal 2015, istituito per i commissari straordinari. Non è un regalo a Mittal».

Per decreto?
«Con lo strumento che il governo ritiene più opportuno. Anche per decreto se serve».

Dunque, niente intervento pubblico? Lei pensa che non ci siano alternative a Mittal?
«Sono pragmatico: c’ è un contratto e va rispettato da tutti. Ma, poiché l’ industria siderurgica è strategica, bisogna immaginare una presenza pubblica, con la Cassa depositi e prestiti o con un altro fondo, nell’ azionariato della società di Mittal in Italia».

Con quale quota?
«Non sta a me dirlo, ma penso con una quota significativa, tra il 20 e il 30 per cento. Una presenza che avrebbe un doppio significato: la dimostrazione che non c’ è ostilità nei confronti dell’ industria siderurgica; la volontà pubblica di controllare gli investimenti e il risanamento ambientale».

Il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, dice che con il calo del mercato non si possono garantire i posti di lavoro.
«Dico a tutti che la riduzione dei livelli occupazioni è inaccettabile. C’è un piano da rispettare e mi sorprende che il presidente della Confindustria non esiga anch’ egli il rispetto degli accordi. Ne va dell’ affidabilità delle parti».

Cosa pensa della scelta del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di andare a Taranto a parlare con gli operai?
«Che è stato un gesto di coraggio. È un buon segnale quello di un politico che ci mette la faccia e discute con chi lavora. Mi aspetto che presto convochi sindacato e azienda a uno stesso tavolo, come unitariamente abbiamo chiesto. Se c’ è una cosa che ha rotto la coesione sociale del nostro Paese è proprio lo strappo che si è consumato tra politica e mondo del lavoro».

La Repubblica, 9 novembre 2019

* Maurizio Landini, 58 anni, dal gennaio di quest’ anno è il segretario generale della Cgil.

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