Dal Cile al Libano/La rivolta dei senzapotere, una frattura tra governo e popolo

29 Ott 2019

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il nuovo millennio si è aperto con una serie ininterrotta di manifestazioni popolari di opposizione e scontento, via via più radicali: i girotondi, i Vaffa days, la primavera araba, Occupy Wall Street, gli Indignados, i forconi, i gilet gialli, la recentissima rivolta in Cile che ha suggerito alle autorità di Santiago di imboccare la strada della “guerra” contro il proprio popolo, definito “nemico potentissimo”.

Le cause scatenanti in ciascun caso sono specifiche ma portano tutte ad un esito inconfutabile: la frattura tra governo e governati, tra governo e popolo. Una frattura che è sintomo di problemi che sono simili in tutti i casi, anche se prevedibili nei Paesi non democratici (la lotta dei cittadini di Hong Kong per difendere le loro libertà contro la Cina) molto meno (o così dovrebbe essere) nei Paesi democratici o con governi eletti.

Il regime democratico ha comprensibili difficoltà a giustificare una guerra contro il proprio popolo: se chi governa è legittimato dal consenso dei cittadini, come si spiegano opposizioni sociali così radicali e ampie? La difficoltà a comprendere questa frattura verticale tra “i pochi” e “i molti” è provata dalla difficoltà a usare la parola conflitto per descriverla. Altri sono i termini impiegati per queste forme di azione collettiva: rabbia, odio, ribellione, sollevamento, rivolta. Il conflitto è tradizionalmente associato a forme organizzate di contestazione che hanno una leadership riconoscibile (nei partiti o nei sindacati) e un andamento contrattuale o finalizzato a ottenere un risultato: pongono il problema di fronte all’ opinione pubblica, incaricano una rappresentanza a portarlo all’ attenzione delle istituzioni, provocano rotture ricomponibili o con nuove elezioni o con nuovi contratti di lavoro. Il conflitto politico e sociale è condizione di stabilità e libertà nella misura in cui i protagonisti, pur se diseguali, sanno che ha senso stare al gioco, che la partita è aperta.

Ebbene, il nuovo secolo si è inaugurato all’ insegna del tirarsi fuori dal gioco, della rivolta di chi non ha potere contrattuale contro tutti “i pochi”: i ricchi e potenti (l’ oligarchia nazionale e globale) e i governi e leader eletti (l’establishment). Per questa ragione, nonostante l’ ebollizione sociale, la parola conflitto è oggi come una Cenerentola nel linguaggio politico. Le opposizioni e le rivolte sono primordiali nella loro radicalità: per chiedere le libertà civili e politiche (da Hong Kong al Kashmir), per denunciare la povertà e l’impoverimento (Haiti, Cile), per gridare contro la corruzione e le riforme mancate, politiche ed economiche (Azerbaigian e Libano), per opporsi a decisioni politiche impopolari e/o imprudenti (Francia, Gran Bretagna, Catalogna). La condizione del Cile è senza dubbio la più estrema, segno della conclusione della parabola a cui si può giungere. Nel Paese sudamericano “più stabile” (e pacificato in seguito ad un colpo di Stato tra i più feroci e sanguinosi, quello del Generale Pinochet), le politiche liberiste hanno attratto capitali stranieri e multinazionali, avidi nello sfruttare le risorse minerarie, e vergognosamente dispotici nel trattamento del lavoro, ripagando la popolazione con salari da fame e lavoro senza diritti.

La radicalità del conflitto cileno supera di gran lunga quella dei gilet gialli francesi, ma in entrambi i casi la miccia della rivolta è stata l’aumento delle tariffe e dei costi di un servizio basilare per chi lavora, il trasporto.

Bisogni ordinari difficili da soddisfare e che condizionano pesantemente la possibilità stessa di lavorare: si tratta di una nuova forma di terzo mondo nel mondo del lavoro salariato. E con una classe politica eletta che a mala pena riesce a capire e che sempre più spesso sceglie di rappresentare la gentry contro i commoners. La democrazia diventa una foglia di fico per nascondere e spesso giustificare diseguaglianze sociali ed economiche intollerabili, creando un terreno fertile per politiche populiste da un lato e rivolte dall’altro, due forme limitrofe, entrambe nemiche della politica come conflitto strategico. La responsabilità di questo stato di cose estremo ricade interamente sui governi democratici che sembrano incapaci di resistere all’alternativa tra populismo e rivolta, due “mali” che sono cresciuti dentro il corpo democratico, indicazioni del declino delle forme rappresentative e organizzate del conflitto sociale.

la Repubblica, 26 ottobre 2019

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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