la frittata è fatta

24 Ott 2019

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 240 del 12 ottobre è stato pubblicato il testo del ddl costituzionale che intende modificare gli artt. 56, 57 e 59 Cost, riducendo il numero dei Deputati da 630 a 315 e quello dei Senatori eletti da 315 a 200.

Essendo stato approvato senza avere raggiunto la maggioranza dei due terzi nella seconda lettura al Senato, la pubblicazione è stata preceduta dalla tradizionale avvertenza, secondo cui “Entro tre mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del testo seguente, un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque Consigli regionali possono domandare che si proceda al referendum popolar”.

Toccherà ora ai cittadini, sollecitati dal Partito Radicale che si propone di raccoglierne 500.000 firme, ovvero a un quinto dei Deputati o dei Senatori, a loro volta sollecitati dalla Fondazione Einaudi, di proporre un referendum oppositivo, per sottoporre la riforma al voto popolare, sfidando la vulgata anticasta diffusasi nel Paese a partire da quello sciagurato libro del 2007, del quale i loro autori farebbero bene ad andare tutt’altro che fieri, visti gli effetti che ha prodotto sul sistema politico.

Se oggi qualcuno osa sfidare l’impopolarità in difesa della democrazia liberale, non c’è che da rallegrarsene.

E tuttavia, siccome il mantra ricorrente è quello secondo cui i nostri parlamentari sarebbero troppi in rapporto alla popolazione, forse non guasta dare qualche sguardo agli altri paesi europei, ma anche alla nostra storia.

L’Ufficio Studi del Senato, in un suo recente dossier, avendo limitato la comparazione alle sole c. d. camere basse (posto che le c. d. camere alte, come il nostro Senato, hanno diversissime modalità di elezione), ha calcolato che, quanto al rapporto tra deputati e popolazione, l’Italia si colloca attualmente al 23° posto (con un deputato ogni 96.006 abitanti), e che solo in 5 paesi il rapporto è più alto del nostro, come accade in Spagna (1 deputato ogni 133.312 abitanti), in Germania (ogni 116.855 abitanti), in Francia (ogni 116.103), nei Paesi Bassi (ogni 114.121), nel Regno Unito (un deputato ogni 101.905).

Se la riduzione dei parlamentari italiani diverrà legge costituzionale, l’Italia conquisterà la maglia nera nella graduatoria della rappresentatività (I deputato ogni 151.210 abitanti).

Se poi guardiamo al nostro passato, rammentiamo che nel Regno d’Italia la Camera dei Deputati (il Senato era di nomina regia, ancorché su suggerimento governativo) è stata nel tempo composta in misura variabile, man mano che si estendeva il suffragio popolare: si è così passati dai 443 deputati nel periodo 1861-1867 (quando gli elettori era appena l’1,9 per cento della popolazione e i voti validi furono 170.567), a 493 nel periodo dal 1867 al 1870, poi a 508 dal 1870 al 1921 e infine a 535 dal 1921 e sino alle elezioni del 1924, in cui la popolazione residente era di 39.943.528, con un rapporto di 1 deputato ogni 74.760 abitanti.

Dove si vede che il rapporto di oggi è tutt’altro che eccessivo, sia rispetto al resto d’Europa, sia rispetto alla nostra anche lontana storia.

Ci pensò poi il Fascismo, ormai divenuto regime, a ridurre i deputati a 400 con la Legge 1019 del 1928, che venne applicata per la prima volta nelle elezioni del 1929, portando il rapporto a 1 deputato ogni 99.858 abitanti, più o meno quello di oggi quando i deputati sono (ancora) 630, mentre, con la riduzione a 400, il rapporto diverrà di 1 deputato ogni 151.2010 abitanti, facendo, almeno sotto questo aspetto, ben peggio della fascistissima legge elettorale del 1928.

Che, tanto per rinfrescare la memoria di chi l’ha persa o non l’ha mai avuta, prevedeva tra l’altro un collegio unico nazionale in cui, esprimendosi con un SI o con NO, gli elettori erano chiamati a approvare o respingere tutta la lista dei 400 candidati proposti dal Gran Consiglio del Fascismo, l’unico ammesso alla competizione elettorale; anche se il regime, bontà sua, aveva previsto che, nell’impossibile ipotesi di prevalenza dei NO, le elezioni si sarebbero ripetute con la presentazione di altre liste concorrenti presentate da inesistenti organizzazioni autonome, e in tale secondo ipotetico turno la lista che avesse preso anche solo un voto in più avrebbe visto eletti tutti i 400 candidati.

Pur consapevoli dell’assoluta diversità dell’attuale contesto politico ancora pluralista, e pensando alle liste elettorali rigide e alle ipotesi di ballottaggio inventate nella nostra seconda Repubblica, a qualcuno dovrebbero cominciare a fischiare le orecchie.

Per la verità, sia nella prima, sia nella seconda Repubblica, a ridurre il numero dei parlamentari ci han provato un po’ tutti.

A proporre la riduzione fu per prima la Commissione insediata nel corso della IX legislatura e presieduta dal liberale Bozzi, che tuttavia, se approvata, avrebbe introdotto dei parametri rapportati alla popolazione (1 deputato ogni 110.000 abitanti o frazione superiore a 55.000; un senatore ogni 200.000 abitanti o frazione superiore a 100.000), cosicché, sulla base della popolazione di allora (56.556.911), il plenum della Camera sarebbe stato di 514 deputati e quello elettivo del Senato di 282 senatori, mentre, con la popolazione di oggi (59.433.744), i deputati sarebbero stati 544 e i senatori 297, con una composizione non molto dissimile da quella attuale.

Una riduzione analoga a quella di oggi (400 deputati, 200 senatori) venne poi proposta dalla Commissione DAlema nella XIII Legislatura, e può sembrare paradossale che proprio a quella proposta patrocinata si siano ispirati gli attuali riformatori, che pure lo hanno in grande antipatia. Ci hanno poi provato i c. d. saggi di Lorenzago nella XIV legislatura (518 deputati, 252 senatori), il presidente della Commissione Affari Costituzionali Violante nella XV (512 deputati e 186 senatori, ma eletti in secondo grado), e poi la Commissione Affari Costituzionali del Senato nella XVI Legislatura (508 deputati, 250 senatori), e infine la riforma Renzi-Boschi della scorsa Legislatura, che, fermi restando i 630 deputati, aveva ipotizzato un Senato di 95 membri, tuttavia scelti con elezioni di secondo grado da regioni ed enti locali.

Insomma, ci hanno più volte provato anche gli aspiranti costituenti della prima e della seconda Repubblica, cercando ogni volta di lisciare per il suo verso il pelo ruvido del populismo e la sua viscerale avversione per la complessità della politica, che riaffiora, come un fiume carsico, ogni volta che compare sulla scena il demagogo di turno con la sua ricetta salvifica dell’uomo solo al comando, o almeno del presidenzialismo in salsa USA o francese, quando invece chi ha un po’ di sale in zucca sa bene che, con l’abitudine italica a correre in soccorso del vincitore (Francia o Spagna, purché se magna), il nostro presidenzialismo finirebbe per somigliare assai più a quello russo, turco o sudamericano.

E tuttavia, tra le proposte riformatrici del passato e quella di oggi c’è un abisso, dovuto al fatto che le prime s’inserivano in un complessivo disegno riformatore dello Stato (condivisibile o meno che fosse), mentre quella di oggi pretende di imporre un taglio lineare che prescinde dalle ricadute sulla struttura istituzionale del Paese, a partire dagli stessi lavori parlamentari.

Se poi c’è una cosa assolutamente vergognosa è la rivendicazione della riforma come riduzione dei costi della politica.

Un’affermazione, questa, che, di per sé, è insieme risibile e pericolosa: risibile, perché il vero risparmio annuo non è di cento milioni, come vanno sbandierando ai quattro venti i suoi sostenitori, ma di 81,6 milioni al lordo delle imposte che ritornano all’Erario, e quindi meno di 60 milioni, in pratica lo 0,007 della spesa pubblica, secondo i calcoli dell’Osservatorio di Cottarelli, e circa 1 euro l’anno per ciascun italiano, anche quelli in fasce; pericolosa, perché induce nell’opinione pubblica la convinzione che il Parlamento è, esso stesso, luogo di sprechi che possono essere eliminati fino a poterne fare a meno, avviando il dibattito su di un piano inclinato al termine del quale c’è la fine della democrazia liberale.

La verità è che la riduzione dei parlamentari non produce riduzione dei costi, ma degli spazi di democrazia per milioni di cittadini, in parte conniventi, in parte inconsapevoli.

Capisco che questa riduzione l’abbiano voluta i parlamentari del M5Stelle, il cui miraggio è la democrazia diretta; capisco che l’abbia voluta Salvini, cui piacerebbe che ci fosse un uomo solo al comando (ovviamente, lui stesso), magari con pieni poteri; capisco che l’abbia gradita Meloni, memore della fascistissima legge del 1928; e capisco (anche se assai meno) che l’abbia accettata Berlusconi, che già in passato aveva sostenuto che bastasse far votare in Parlamento solo i capigruppo, con un peso proporzionale ai rispettivi parlamentari, quasi una riunione di condominio in cui ognuno vota in ragione dei millesimi di cui è titolare.

Quel che proprio non riesco a capire è come possa averla votata il PD, che pure l’aveva avversata nelle prime tre votazioni, mentre alla fine si è piegato al ricatto esistenziale del suo partner di governo, che pretendeva la “prova d’amore” per continuare l’attuale matrimonio morganatico.

Un acuto commentatore come Sergio Fabbrini, ha scritto recentemente sul Sole che “la democrazia muore per l’inerzia dei suoi difensori, non solamente per la pericolosità dei suoi nemici”; un’inerzia, aggiungo, che somiglia molto all’ignavia meritevole dell’antinferno dantesco, dedicato a coloro che “visser sanza infamia e sanza lodo”.

Tuttavia, a questo punto, la frittata è fatta, e, mentre chi la trova indigesta proverà a buttarla nella pattumiera della Storia per via referendaria, ove mai le iniziative in corso non avessero seguito, è necessario che questo Parlamento, prima di tirare le cuoia, metta in sicurezza la nostra società pluralista, oggi a rischio come non mai, introducendo subito, prima che sia troppo tardi, alcune riforme coessenziali alla riduzione dei parlamentari, e in particolare:

  • una legge elettorale proporzionale, senza artificiosi sbarramenti e privilegi, sin dal momento della raccolta delle firme per la presentazione delle liste;
  • regolamenti parlamentari adeguati ai nuovi numeri delle due Camere;
  • limiti severi alla questione di fiducia su alcune materie, cominciando da quella elettorale;
  • rigorosi limiti alla decretazione d’urgenza, tante volte suggeriti alla Corte Costituzionale;
  • divieto di maxiemendamenti che non rispettino almeno il lavoro svolto dalle Commissioni;
  • eliminazione dei contingentamenti che comprimono il dibattito parlamentare.

Si tratta di un auspicio che non potrà trovare ascolto in chi ha fatto del fastidio verso il Parlamento, la sua ragione sociale, considerandolo come un fastidioso intralcio all’esercizio del potere, mentre dovrebbe trovare orecchie attente in chi invece lo considera come il baluardo essenziale della democrazia liberale.

A cominciare dal PD, che dovrebbe dismettere la sua originaria vocazione maggioritaria, lecita quando si tratti di mirare a conquistare il consenso della maggioranza assoluta dei cittadini, ma assai meno quando si provi a trasformare un consenso minoritario in una maggioranza parlamentare attraverso lartificio di una legge elettorale truffaldina, come quelle che abbiamo sperimentato nella seconda Repubblica.

Dal PD, se proprio non vuole contraddire il rispetto che ostenta per la democrazia liberale, sarebbe lecito attendersi la rinunzia a tenere artificialmente in vita l’attuale rosatellum, come sembra che voglia fare nella speranza di reinventare un bipolarismo peggiore di quello del passato.

Mentre, proprio al PD, dopo la prova d’amore offerta gratuitamente al suo partner di governo, toccherebbe il compito di convincerlo che l’amore va ricambiato, facendo approvare alcune misure compensative necessarie per riequilibrare il pendolo del rapporto tra i poteri dello Stato, ma anche bloccando ogni tentativo di introdurre surrettiziamente ogni vincolo di mandato e lequiparazione dell’elettorato attivo e passivo tra le due Camere, che renderebbe il Senato un doppione assolutamente inutile ed estraneo al disegno istituzionale dei Costituenti.

Su questa piattaforma non dovrebbe poi mancare la disponibilità dei parlamentari di Italia Viva e dei liberali che ancora resistono in una Forza Italia mestamente avviata verso il tramonto all’ombra dell’assorbente alleato leghista.

In questo modo anche una stupida riforma come questa potrebbe trasformarsi in un’opportunità per la nostra traballante democrazia..

Non credo che ne abbiano voglia o ne siano capaci, ma “spes ultima dea”!

Quindicinale online di Critica Liberale “Non mollare”, n. 050 del 21 ottobre 2019

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