Che cosa divide la scienza dalla coscienza

23 Ott 2019

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Nel tempo della sua prodigiosa esplosione, la scienza ha messo nell’angolo l’etica. Entrambe sono nella natura dell’ essere umano, ma l’una procede indipendentemente dall’altra. Corre per le sue strade la prima, la seconda annaspa. “L’uomo è antiquato”, s’è detto per indicare questa condizione. Ricerca, innovazione, sperimentazione, sviluppo sono le sue veloci parole d’ordine. Quelle dell’etica sono altre, lente: giudizio, giustizia, rispetto, senso del limite, “non fare agli altri”, ecc. La scienza è neutrale: si occupa di fatti, l’etica di valori. Il collegamento tra gli uni e gli altri spetta ad altre “agenzie”: politiche, economiche, morali. La scienza è scienza e l’etica è l’etica.

Troppo facile. Il senso comune spesso diffida della scienza, come s’è visto nelle controversie su vaccinazioni, metodo Stamina, cura Di Bella. Il degrado ambientale è tema che fornirà tante nuove occasioni di scontro tra negazionisti e catastrofisti, senza che la scienza possa mettere fine con una sua parola. I motivi di diffidenza sono vari: lo spirito sopra la materia, il soggetto prima dell’oggetto, la metafisica contro la fisica, il libero arbitrio contro il determinismo, il catastrofismo e il sospetto di complotti. Soprattutto, aleggia la sindrome dell’ apprendista stregone. Le macchine raccolgono ed elaborano dati e informazioni in misura che il cervello umano non può sognarsi di padroneggiare.

Ma sono senz’anima e tra poco saranno capaci di procedere per proprio conto, di «pensare, parlare e fare per noi». Se incrociamo queste due rischiose proposizioni: «ciò che è stato scoperto, lo è per sempre» «tutto ciò che può essere fatto, può essere fatto» – dove “potere” ha due significati: come capacità e come liceità – si comprendono i rischi d’una scienza che non conosce limiti. Che cosa uscirà dal vaso della bella e ambigua Pandora? Jules Verne (I cinquecento milioni della Bégum) narra dell’invenzione del cannone onnipotente che finisce per annientare l’artificiere.

La conoscenza è sempre più specialistica. Tanto più la scienza va nel profondo, tanto meno riesce a rappresentarsi i risultati d’insieme e le applicazioni che si potrà farne: vita o morte, libertà o oppressione, prosperità o distruzione, uguaglianza o discriminazione. Lo scienziato bene intenzionato che pensa se stesso come amico dell’umanità non infrequentemente si trova a dover inorridire, di fronte alla eterogenesi dei fini delle sue scoperte. La fisica nucleare può servire alla guerra, o alla medicina; la genetica, a creare mostri o a curare malattie e creare risorse alimentari; le neuroscienze, a controllare le coscienze o a curare le patologie cerebrali; la tecnologia digitale, a produrre e diffondere conoscenze oppure a limitare la libertà. La produzione industriale di beni di consumo divora risorse e impoverisce la terra. La medicina, benefica per definizione, nell’allungare l’esistenza determina conseguenze personali e sociali indesiderate e perfino disastrose. La prospettiva dell’ immortalità donata dalla scienza medica, più che speranze, genera mostruose visioni di un futuro terribile.

Si dirà che le conseguenze, benefiche o malefiche, non sono imputabili alla scienza ma alle applicazioni. Gli scienziati sarebbero comunque innocenti. Forse, però, è da considerare anche ch’essi sono “complici necessari”, anche se spesso inconsapevoli, di cose buone ma anche di cattive. Stefano Levi della Torre ha parlato di «taylorizzazione delle coscienze » come condizione del nostro tempo. Da qui, uno dei tormenti di Primo Levi espressi innumerevoli volte, ad esempio nello scritto pieno di pathos intitolato Covare il cobra. Cesare Cases ha commentato: «Ciò che non gli va giù (a Levi) è che l’onorata ditta Topf di Wiesbaden, che produceva crematori per uso civile, abbia fornito le attrezzature di Auschwitz e poi sia ritornata come se niente fosse all’attività precedente senza nemmeno pensare di cambiare la propria ragione sociale. La Bayer, oltre all’aspirina, è produttrice anche dello Zyklon b, messo a punto da un ebreo tedesco per essere usato nella disinfestazione di insetti parassiti e poi, sulla linea di una spaventosa coerenza, nello sterminio di milioni di persone nelle camere a gas. «Forse è qui il segreto della grande follia del Terzo Reich» che Levi cercava invano di scoprire; se è così, allora è un segreto universale che non cessa di minacciarci e la minaccia è prodotta dalla nostra razionalità.

A parte coloro che collaborano scientemente a progetti dichiaratamente di guerra, quanti sono gli scienziati che, a loro insaputa e quindi con la coscienza a posto, operano in quelle che si potranno rivelare opere mortifere? “Con la coscienza a posto”: questa è la sconcertante constatazione. Vuol dire che li si dovrà ritenere irresponsabili perché la scienza, con le sue applicazioni concrete, procede indipendentemente da loro. Se mai, le colpe saranno addebitabili alla scienza come tale. Chi e come potrà salvarci? Il catastrofismo parla chiaro: «solo un dio», disse Heidegger. Da qui, l’illusione non solo antiscientifica ma perfino fantascientifica, dello stop precauzionale, imposto d’autorità alla ricerca, come auspicato da taluno dopo le tragedie tecnologiche della seconda guerra mondiale.

Questa non è altro che una provocazione che praticamente lascia il tempo che trova: la questione è di cercare di ricomporre il cerchio spezzato di cui si diceva all’inizio. Forse la scienza dovrebbe essere e più umile e più pretenziosa. Più umile, innanzitutto nel riconoscere che le sue verità sono sempre solo probabilistiche. Essa procede per errori e correzioni, onde mai potrebbero fissare punti fermi incontrovertibili. Le smentite che sono feconde. Umiltà anche perché non è affatto vero che il progresso scientifico coincida di per sé col progresso dell’ umanità.

La scienza per la scienza finirà per trovare chi se ne servirà per legittimare qualunque aberrante applicazione pratica. La divisione dell’ umanità in “razze” e lo sterminio di quelle “inferiori”, la classificazione degli esseri umani in “ben riusciti” e “mal riusciti”, la loro distinzione in utili superflui dannosi: tutto ciò poté avere alla base il contributo della genetica, della medicina e dell’economia politica di allora. È vero che le acquisizioni scientifiche sono possibilità lanciate nel tempo e nello spazio e chiunque se ne potrà impadronire, ma è anche vero che quest’ambiguità non giustifica l’agnosticismo e l’acquiescenza della comunità scientifica di fronte a ciò che Primo Levi ha trattato come “vizio di forma”.

Sulle implicazioni e applicazioni la scienza responsabile dovrebbe porsi domande e avanzare pretese. Da questo punto di vista è forse troppo timida. Queste domande e pretese dovrebbero far parte dell’etica degli scienziati.

La ricerca “pura” è quella che prescinde dalle applicazioni e la “purezza” è l’ideologia che protegge la pretesa di neutralità. Finisce, però, per essere un alibi alla cecità di fronte al senso delle proprie azioni e un’autorizzazione in bianco. Se non si può chiedere agli scienziati di essere dei moralisti, almeno si dica loro: «Se ti è concessa una scelta non lasciarti sedurre dall’interesse materiale o intellettuale, ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno pericoloso l’ itinerario dei tuoi coetanei e dei tuoi posteri. Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla».

la Repubblica, 19 ottobre 2019

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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