Due grandi libertari, Matteo Salvini e Wanda Nara

11 Set 2019

A differenza del discorso di Giuseppe Conte nell’affrontare la sfiducia di Salvini, quello immediatamente seguente del suo Ministro dell’Interno non ha attratto molta attenzione. Eppure nella sua esposizione, pur disordinata, si può riconoscere un vero manifesto sovranista-populista. Tento di illustrarne alcuni dei punti salienti.

 All’inizio, c’è un’invocazione-rivendicazione alla libertà. Essere liberi è non aver padrone: nessuno deve dirci cosa fare o non fare. In un   recentissimo ma immediatamente famoso post di Wanda Nara, la nota filosofa argentina, “Hacer lo que te gusta es Libertad”. Le due definizioni, logicamente indipendenti l’una dall’altra, si integrano a vicenda, e sembrerebbero un invito al ritorno allo stato di natura. Se vogliamo uscirne, dobbiamo accettare di essere governati da un sistema di leggi, e possiamo conservare la libertà, intesa alla Salvini come assenza di un’autorità esterna, solo in quanto possiamo partecipare al processo di produzione legislativa: la democrazia. La nostra individuale sfera di libertà, la condizione di non interferenza che poi ci consente di “hacer lo que nos gusta”, è assicurato a ciascuno proprio dall’osservanza di tutti alle leggi. Dunque le due rivendicazioni sono vuote, in un paese democratico quella di Salvini e di Nara e in uno stato di diritto quella di Nara. Ma la rivendicazione di Salvini suscita un’eco in tutti noi italiani: una libera indipendente repubblicana doveva essere l’Italia secondo Giuseppe Mazzini. L’Italia del discorso di Salvini è come una statua di marmo, o di alabastro. Ha una compattezza, una solidità che la rendono esente da divisioni, crepe, scissioni, manchevolezze, abusi, imbrogli. Guidata da italiani cattivi e stupidi (che a rigore non si capisce da dove possano essere spuntati: forse spie dell’imperialismo straniero) ha aderito alla Unione Europea, e ha perso la sua sovranità. Si è messa nelle mani di oppressori e sfruttatori che godono di tenerle i piedi sul collo.

Due direttive comunitarie portate alla luce negli ultimi giorni dai giornali possono costituire esempi di queste circostanze.

La direttiva sul numero unico di emergenza, recepita nella nostra legislazione nel 2009, dopo 10 anni non è ancora stata pienamente attuata, come è emerso dall’incidente mortale dell’escursionista francese Simon Gautier sui monti del salernitano. Si legge sul Corriere della Sera del 20 Agosto. “Le centrali operative di soccorso sono materia delle Regioni… l’attivazione dell’1-1-2 chiesta dalla Ue non è stata omogenea: alcune se ne sono dotate, altre devono ancora farlo.” Quelle che non l’hanno ancora fatto, evidentemente, secondo l’insegnamento di Salvini non sopportano alcun padrone e secondo quello di Wanda Nara non ne avevano alcuna voglia.

Massimo Casanova, gestore dell’ormai famoso Papeete, grande amico del suo illustre ospite e euro-parlamentare leghista lui stesso, appena eletto dichiarò di “voler scardinare il sistema”, ma in un secondo tempo si limitò a proporsi di “togliere la direttiva Bolkestein dalle nostre spiagge”. Ma in questo fu preceduto da un altro leghista, Gian Paolo Centinaio: gli imprenditori che gestiscono spiagge e bagni potranno per altri 15 anni mantenere le loro concessioni -ottenute a prezzi spesso scandalosamente bassi- senza il rischio che, come prescrive la direttiva Bolkestein, queste vengano messe in gara. La UE ha oltretutto il brutto vizio di volerci imporre in molti casi un asfissiante, fastidioso ricorso a delle procedure concorsuali. Per i leghisti, molto, molto meglio dare le spiagge ai loro amici e finanziatori. Ma i bagnanti e gli enti locali troveranno così oppressiva questa direttiva?

Però la nostra appartenenza all’Ue, e in particolare all’Unione monetaria, assoggettandoci a una disciplina sovranazionale del nostro bilancio pubblico, ci impedisce di realizzare le opere pubbliche e di produrre i servizi pubblici di cui abbiamo bisogno: scuole, ospedali, trasporti. E perché? Perché ci impedisce deficit di bilancio che vadano al di là di percentuali cervellotiche e arbitrarie. Ora la scelta della dimensione del settore pubblico nell’economia di un paese è soggetta a molte ragioni individualmente valide e tra loro contrastanti, che però non hanno alcuna relazione immediata con il finanziamento in deficit della spesa pubblica. La UM non ci impedisce di avere una spesa pubblica al 50% o magari al 60% del Pil. Ma, come ogni brava massaia sveva, perché non lo facciamo mantenendo il bilancio in pareggio? Troviamo difficile farlo per due ragioni. La prima è che il nostro indebitamento è molto elevato: il 130% del Pil. Questo lo abbiamo creato noi, non la UEM, e comporta che una quota di circa l’8% del nostro gettito viene assorbita dal servizio del debito, ossia, dal pagamento di interessi. Per dare un’idea più concreta di cosa ciò significhi possiamo ricorrere all’odiato Commissario europeo Pierre Moscovici, che in un’intervista a Repubblica del 23 Ottobre 2018 dichiarò: “Quando il debito sale aumenta la spesa per gli interessi, che già oggi vale 1.000 euro per ogni italiano e in totale 65 miliardi, quanto il Paese spende per l’istruzione”, anzi, come fu notato successivamente, un po’ di più. E annualmente i nostri deficit alimentano il nostro debito, che dunque aumenta e aumenta, ahimé, più del Pil, il quale è quasi stazionario da anni! La seconda è che secondo alcune stime avremmo il bilancio pubblico in pareggio nonostante tutto, SE non fossimo afflitti da una così pesante evasione fiscale. La noia di pagare le tasse! Questo sì è un campo in cui sarebbe molto meglio non avere padroni. Berlusconi docuit. Se compito della classe politica è di soddisfare i desideri del popolo, e quindi in un certo senso, la volontà popolare, ossia, diventare un governo del popolo per il popolo, nessun desiderio è più dirompente che essere esentati dal pagamento delle imposte già accertate. Che bella, finalmente la “pace fiscale” offerta dal governo giallo-verde! Ed in effetti la Lega pre-salviniana come quella salviniana si è sempre distinta per la tenacia del lavorio parlamentare per ottenere condoni fiscali, previdenziali, urbanistici e di ogni altro genere in continuazione. Da questo punto di vista il “governo del cambiamento” è stato il trionfo, l’esplosione, della continuità.

“Ma allora Lei è un evasore fiscale!” esclamò orripilata Ilda Bocassini interrogando in aula il ministro Previti. Egli in un primo tempo rispose con sussiego: “Fatti miei.” Ma poi, incalzato dall’indignata strillante magistrata, diede la risposta decisiva e vincente: “Condonato per tutto il periodo in considerazione.” Così il nostro Paese rischia di perdere un’importante componente della sovranità: la sovranità fiscale. Tutti quelli che possono astenersi dal pagare, lo fanno in attesa del mite, mitissimo condono successivo. Da questo punto di vista, l’Italia è ormai ridotta allo stato della Grecia o di un qualunque paese sottosviluppato. Non può più fare una politica fiscale non perché glielo impedisca la UE ma anche perché ormai non riesce a riscuotere le tasse. Qui il sovranismo e il populismo di Salvini si vanificano a vicenda fondendosi e lasciando come residuo solo l’ingenuo anarchismo iniziale: nello stato di natura, però. non c’è sovranità nazionale e volontà popolare, perché non c’è nazione e non c’è volontà di popolo.

 

*Il professor Costa, già docente di Economia all’Università di Pisa, è socio di LeG.

 

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