Quando si deplora, giustamente, che le forze di governo non sviluppino progetti strategici per il Paese, e facciano invece proposte “a fini elettoralistici”, spesso non ci si interroga abbastanza circa il perché una larga parte dell’elettorato apprezzi queste proposte. La risposta più convincente a questa domanda è: “I cittadini non sono stati educati a essere tali”. Ciò significa che non sono stati preparati a guardare al domani anziché solo all’oggi, a comprendere che una società funziona bene solo se è solidale, a vivere i propri doveri insieme ai propri diritti; e perciò a pretendere dai decisori politici soluzioni vere anziché palliativi.
Penso che una Associazione di cultura politica come “Libertà e Giustizia” dovrebbe dare un grande rilievo alla necessità che il sistema pubblico di istruzione si faccia carico della “formazione alla cittadinanza”. Vi erano in passato rudimenti di “educazione civica”, spesso insufficienti e comunque del tutto marginali nei curricoli scolastici: anziché migliorarne lo svolgimento, sono stati soppressi, e -proprio perché le modalità di tale educazione non erano state molto convincenti- la soppressione non ha incontrato rilevanti proteste.
E’ evidente che rilanciare la citata esigenza richiede una elaborazione adeguata, con proposte di modalità diverse per i diversi livelli di istruzione. Anche il livello universitario va considerato, poiché il laureato dovrebbe possedere una specifica preparazione in merito alle responsabilità “civiche” che il proprio lavoro di professionista o di studioso comporta.
Il Presidente appena eletto, Paul Ginsborg, è uomo di grande cultura ed è certamente sensibile a questo tema. Mi auguro che “Libertà e Giustizia” metta tra le proprie priorità l’elaborazione qui suggerita, e conseguentemente si impegni per il rilancio di un sistema educativo nel quale abbia un grande spazio la formazione di cittadini consapevoli del loro ruolo sociale.
* L’autore del testo, ex docente di Matematica all’Università di Genova, è tra i garanti di LeG e componente del Circolo Ligure.
Lonate Ceppino 27/11/2010
Un’idea per una Scuola con un modello economico giusto.
Se si vuole che tutti i cittadini abbiano lo stesso diritto all’istruzione è necessario istituire un modello di scuola economicamente giusto; che secondo me vuol dire che gli studenti non paghino la scuola ma anzi percepiscano un appropriato sussidio scolastico che li renda tutti uguali sul piano economico. Si potrebbe raggiungere questo risultato se coloro che hanno frequentato una determinata scuola pagassero proprio a quella una tassa commisurata al proprio reddito quando, facendo parte del mondo del lavoro, usufruissero delle capacità acquisite durante gli anni di studio. Quando un criterio del genere fosse ben organizzato, esente da illeciti ed efficiente, gli istituti scolastici avrebbero il necessario per poter gestire al meglio la propria struttura e pagare i propri studenti.
Questa impostazione comporterebbe che ogni studente sia considerato prezioso dalla propria scuola in quanto solo dalla buona riuscita delle capacità professionali acquisite dipenderebbe la sua collocazione nel mondo del lavoro e di conseguenza la buona tenuta economica della scuola alla quale aveva appartenuto.
Il pericolo insito in questa modalità è che le scuole vengano troppo influenzate dal mercato e di conseguenza risultino assoggettate a chi, imprese o servizi in futuro impiegherà gli studenti. Una scuola assoggettata alle richieste dei datori di lavoro risulterebbe poco adatta a creare individualità con pensiero veramente innovativo ma piuttosto persone facilmente inseribili nel lavoro quando il modo di essere di questo fosse esente dalla dinamica della trasformazione. Avremmo cioè proprio il contrario di quanto chiede un mondo in continua evoluzione. Lo Stato dovrebbe evitare che questo avvenga e per fare ciò dovrebbe secondo me modificare completamente tutto l’insieme di regolamentazioni che vengono imposte a tutte le aggregazioni di persone che si impegnano nelle attività. Le regole devono mirare a fare eseguire le attività con l’obiettivo di perseguire il massimo possibile di qualità e perciò il miglioramento continuo. La stessa aggregazione di persone deve essere organizzata con gli strumenti di autocontrollo necessari. L’organizzazione deve tendere a far svolgere ogni compito secondo la logica dell’autocontrollo e del perseguimento dell’eccellenza in modo che il controllo di qualità delle attività della società, scaturisca dal basso, intendendo per qualità di una attività il giudizio oggettivo sull’insieme dei fattori che interessano l’attività o da cui la stessa è interessata. I fattori di cui sopra sono naturalmente il prodotto o il servizio, il rendimento economico, l’impatto sull’ambiente, ma anche la soddisfazione (l’amore) degli addetti per il proprio lavoro, l’impatto sulla società, ecc. La buona qualità di un’attività dipende naturalmente dalla buona qualità di tutti i fattori, ma ritengo importante esprimere la mia opinione su che cosa dovrebbe significare essere soddisfatto del proprio lavoro: Chi partecipa ad un’attività dovrebbe essere nello stesso tempo cosciente dei propri limiti e delle proprie qualità e potenzialità e, mentre gli altri addetti sono disponibili per fargli superare i suoi limiti altrettanto è lui stesso disponibile per far superare i loro limiti agli altri.
Consideriamo un’organizzazione che svolga un’attività complessa, se tutti gli addetti aderissero al modo d’essere, espresso in precedenza, non sarebbe necessario che il nuovo inserito conosca pienamente l’attività da eseguire perché avrebbe il supporto di chi ha già quella esperienza, senza però tralasciare che il punto di vista del sopravvenuto può portare nuove idee che potrebbero suggerire innovazione creativa.
La qualità di una scuola dovrebbe essere valutata, secondo me proprio in ragione di saper esprimere una mentalità di questo genere: ogni individuo è degno perché ha le sue proprie qualità che sono in parte esplicitate dalle sue capacità acquisite ed in parte allo stato di potenzialità che possono esplodere quando fosse messo in sana relazione con chi gli può fare superare i limiti che le manchevolezze sia di conoscenza che del proprio carattere gli procurano. Le potenzialità inespresse non si traducono soltanto nell’apprendimento della cultura e tecnologia esistente ma possono svilupparsi in nuova cultura e nuova tecnologia.
Giuseppe Ambrosi
I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica
Franco Lorenzoni
I bambini pensano grande
Bambini e insegnanti insieme, a scuola: per fare domande, ascoltarle, cercare di capire, imparare a stare meglio al mondo. Paolo Mazzoli legge per noi il nuovo libro di Franco Lorenzoni.
Forse il motivo principale che mi ha spinto a fare il maestro elementare, dopo sei anni di insegnamento alle superiori, è la bellezza di alcune discussioni di bambini di quarta elementare a cui mi capitò di partecipare nei primi anni Ottanta. Non so bene quando, ma ricordo che un giorno mi sono chiesto: in quale altro lavoro posso godere di queste discussioni così profonde, così illuminanti, così vere?
Spesso ho provato a condividere questa scoperta, inserendo brani di discussioni in articoli e libri di didattica. Ma tagliandole e riducendole si perdeva molto della loro forza e, d’altra parte, nessun editore mi avrebbe permesso di pubblicare pagine e pagine di conversazioni. Serviva un sapiente lavoro di montaggio, occorreva una storia che le giustificasse, serviva il tocco di uno scrittore. Credo che Franco Lorenzoni, nel suo I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, sia riuscito in questa impresa.
Sentite qua. Marianna: “Secondo me è quasi impossibile conoscere me stessa, sapere che sono me stessa, che mi conosco. Secondo me è impossibile sapere di conoscere tutta me stessa, perché comunque te stesso non è sempre uguale, continua, continua, continua…”. Oppure: Mattia: “Secondo me Pitagora non ci è riuscito ad arrivare alla radice di 2 perché, come dice Marianna, la radice di 2 c’è ma non ha un numero”. Valeria: “Ma lui era tanto genio e non poteva prendere decisioni affrettate, tipo è impossibile o non esiste. Lui doveva continuare a provare, provare, provare…”.
Non c’è alcun trucco, sono proprio loro. Menti di bambini che vogliono capire e ai quali non passa neanche per la testa la tentazione di farsi dire come stanno le cose da qualcun altro. Mentre, purtroppo, è proprio nella scuola che emerge – lentamente, inesorabilmente – una “fiducia pericolosa”, e progressivamente paralizzante, che qualcuno sa le cose, che le cose vere sono quelle scritte sui libri, che non ha senso porsi domande difficili. Come facciamo a vedere le cose? Come nasce una piantina dal seme? Perché un triangolo che ha i lati lunghi 3, 4 e 5 è sempre rettangolo? E poi: perché moriamo? Ecco: nel diario di scuola del maestro Franco irrompe improvvisamente la morte di un compagno di scuola. E allora si cambia strada, come sempre, si fa il cerchio, se ne parla.
Così andare a scuola, per i bambini come per gli adulti, non è più solo utile per imparare cose ma, senza mezzi termini, per imparare a stare al mondo, a fare i conti con sé stessi, a trovare conforto nel pensiero, nel confronto con gli altri, nella bellezza infinita di una realtà che, come dice Valeria, “dobbiamo conoscere piano piano, perché non ce n’è solo una”.