Luciano Canfora, In Italia il fascismo non muore mai

06 Apr 2019

L’indebolimento del Parlamento. La ricerca spasmodica del rapporto con le masse. L’intesa di Salvini con i movimenti di estrema destra (…). Sono tanti, secondo Eugenio Scalfari, gli elementi di contiguità politica e culturale tra il fascismo storico e il nazionalismo illiberale di Salvini.


È d’accordo, professor Luciano Canfora?
«Sì, lo penso da tempo. Al tema ho dedicato anche il saggio La scopa di don Abbondio. Vorrei però fare una premessa».
Prego.
«La discussione sul fascismo mai morto non è cominciata avantieri, ma dura da quando Mussolini è stato appeso a Piazzale Loreto. Nel suo Golia, tradotto in Italia nel 1946, Giuseppe Antonio Borgese volle dare un messaggio chiaro: il fascismo è caduto, ma dipenderà da noi la sua definitiva scomparsa.
Devo ricordare l’intervento parlamentare di Concetto Marchesi nel 1949: il fascismo non è morto, ma ha varcato l’Atlantico? E ci siamo dimenticati del conflitto violentissimo suscitato nel 1960 dall’allora premier Tambroni con la sua apertura al Movimento Sociale?».

Sta dicendo che del fascismo non ci siamo mai liberati?
«Non solo questo. Vorrei aggiungere che esistono varie forme e incarnazioni del fascismo – da Francisco Franco a Juan Perón, dai colonnelli greci agli ustascia croati – ma l’elemento comune ai diversi movimenti e alle diverse personalità è il sentimento razzistico del rifiuto del diverso. Un principio efficacemente espresso da Mussolini a Bologna nel 1921, prima della Marcia su Roma: dobbiamo difendere la stirpe ariana e mediterranea. È questo il fondamento del fascismo, il tratto essenziale del suo Dna».

E lei lo ritrova oggi in Salvini?
«Mi pare evidente. Naturalmente tutto questo si traduce nella ricerca del consenso popolare attraverso forme demagogiche e attraverso quelli che potremmo definire “conati di stato sociale”: Mussolini ne fece larghissimo uso. E il largo consenso ottenuto si cementa in tutti i fascismi nella bandiera del “noi contro di loro”».
Umberto Eco in una celebre conferenza tenuta alla Columbia University parlò di “fascismo eterno”, sintetizzato in alcuni punti fondamentali: l’esaltazione del sangue e della terra, il disprezzo per la cultura, la paura del diverso, l’antiparlamentarismo, l’irrazionale. Per certi versi è impressionante l’analogia con l’ attualità.
«Eco non era un estremista, né un esagitato: quella lezione è diventata un libro che andrebbe distribuito nelle scuole. La paura del diverso viene alimentata da Salvini con un argomento che sul popolo impoverito ha grande presa: il migrante ti porta via il lavoro. Se sei disoccupato, la colpa è di quelli là.
Ecco, ci siamo: è questo il fascismo nascente. Oggi non c’è più bisogno di fez, di manganelli e di olio di ricino per instaurare forme fascistiche».

Molti storici obiettano che suonare l allarme fascista oggi è sbagliato.
«Bertolt Brecht diceva che un fascista americano sarebbe un democratico nelle forme ma resterebbe sempre un fascista. E Thomas Mann a Hollywood non esitava a paragonare il maccartismo al fascismo. Mi sento dunque in ottima compagnia. Chiarito che ne esistono mille varianti nella storia, l’uso del concetto di fascismo è ancora valido».

Perché questo filo nero non è stato mai spezzato? Forse perché non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo con il regime di Mussolini?
«Lei usa una espressione generica: fare i conti. Peraltro sul piano storiografico oggi non si fa che studiare il ventennio fascista».
Oggi sì, ma per quasi quarant’anni il fascismo non è stato studiato. Il primo fu Renzo De Felice negli anni Ottanta.
«E allora Gramsci? Non è stato il più fine analista del fascismo?».
Ma Gramsci ne fu vittima. Morì nel 1937. Non può essere rappresentativo della coscienza italiana che nel dopoguerra elabora l’esperienza totalitaria.
«Nella nostra vicenda nazionale il fascismo si è presentato nelle forme più diverse, dai movimenti eversivi protetti dai servizi deviati ai seguaci del partito di Almirante. Ci siamo forse dimenticati delle trame nere?
E quando è finita l’esperienza del socialismo reale, con il crollo dell’ Urss, si è sollevata l’ onda revisionistica: vedete che il fascismo qualcosa di buono l’ha fatto? Aveva combattuto il male assoluto, il comunismo, bisognava esaltarlo. Non era stato Berlusconi a celebrare il duce?».
Se per questo di recente anche Tajani ci ha messo del suo. Ma non mi ha ancora detto perché questa traccia nera permane nella storia italiana.
«La Democrazia Cristiana era un partito complesso: le sue classi dirigenti erano antifasciste, ma la base includeva gran parte del Paese che era stato fascista. Tutta la condotta della Dc è stato un navigare a vista. E a livello popolare incolto ha retto per decenni il luogo comune secondo il quale Mussolini era stato artefice di tante cose buone, peccato che avesse fatto la guerra. Mai che nessuno abbia detto: peccato per le leggi razziali. E oggi purtroppo vediamo traccia diffusa di questa rimozione».
La rimozione ha riguardato anche la nostra storia coloniale. Solo negli anni Novanta gli studiosi hanno cominciato a far luce sulla nostra condotta razzista in Africa.
«Il dramma di coloro che tornarono dalla colonia perduta finì per nutrire una sorta di revanscismo nostalgico. Ci siamo chiesti perché il Movimento Sociale diventò un partito popolare? E perché ebbe così grande successo l’Uomo Qualunque di Giannini? Nella nostra storia permangono ombre mai messe in chiaro. L’ importante è esserne consapevoli».

la Repubblica, 23 marzo 2019

 

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