“Cari razzisti del terzo millennio”, firmato Don Luigi Ciotti

04 Mar 2019

In qualunque bar d’Italia si può oggi ascoltare il seguente ragionamento: «Gli stranieri sono troppi, vivono alle nostre spalle, e per di più, spacciano, rubano e violentano. Basta guardare nei portoni o nei giardinetti vicino a casa. Meno male, dunque, che c’è finalmente qualcuno che gli stranieri non li fa entrare e, se sono entrati, li rimanda al Paese da dove sono partiti. E chi poi gli stranieri proprio li vuole, se li porti a casa sua». E adesso che quel Qualcuno è arrivato, benedetto da molti voti, ecco che don Luigi Ciotti scrive un pamphlet per dire che tutto questo ha un nome, ed è razzismo.

Parola semplice, da alcuni ancora non pienamente accettata. Viviamo in un Paese razzista? Sì. Ma ci sono italiani che ancora non digeriscono questa verità, pensando che un peggio può ancora succedere, che in fondo la situazione non è così grave, che non siamo mica la Germania nazista, che diamine. “Lettera a un razzista del terzo millennio” (Edizioni Gruppo Abele) spiega loro chiaramente perché si è arrivati a questo punto, e Ciotti dice anche perché ha deciso di scriverne: «Di fronte all’ingiustizia che monta intorno a noi non si può più stare zitti», ricordando due fatti recenti. 

Uno: il 23 dicembre scorso Sam, neonato di tre giorni, viene soccorso da una nave Ong sul barcone nel Mediterraneo, prelevato con la madre da un elicottero e portato in salvo a Malta (gli altri 309 migranti invece vagano per una settimana e duemila chilometri). Due: il 2 novembre la ragazzina yemenita Amal muore di fame, a 7 anni. «La sua fotografia, il viso reclinato con gli occhi persi, le ossa a malapena ricoperte di pelle, le mosche sulle mani, ha provocato l’indignazione di un giorno». Un giorno appena, e ce ne siamo dimenticati. Ciotti cita il Papa, che si è rivolto ai giovani dicendo «voi griderete? Per favore, decidetevi prima che gridino le pietre». Già, chi grida?

Intanto c’è questo libro-lettera, indirizzato a chi razzista lo è, anche se – fate la prova, nel bar, o al mercato, o a una cena – rifiuta indignato la definizione: «Io razzista? Ma come ti permetti», e naturalmente mai comprerà qualcosa che dimostri questa verità. Ciotti gli dà del tu, come fa da tutta la vita anche con persone importanti, prima esseri umani, poi persone importanti. «A te, coinvolto in questa ubriacatura razzista che attraversa il Paese, a cui partecipi forse per convinzione o forse solo per l’influenza di un contesto in cui prevalgono le parole di troppi cattivi maestri e predicatori d’odio».

Il razzista del terzo millennio dovrebbe quindi conoscere alcuni numeri. Siamo un Paese povero, lo dice l’Istat. Un milione 778mila famiglie, cioè 5 milioni 58mila persone, sono in condizioni di povertà assoluta. Nel 2005 erano meno della metà. Poi ci sono i poveri “relativi”, 3 milioni e 171mila famiglie, cioè 9 milioni e 368mila persone. Più 3 milioni di disoccupati, e il lavoro – se c’è – è sempre più precario e malpagato. E 20 milioni di italiani sono analfabeti “funzionali”, e 6 milioni analfabeti totali. 

«Ma sei sicuro che la causa di tutto questo siano i migranti o che, comunque, essi c’entrino qualcosa con l’impoverimento e le disuguaglianze? I fatti dicono di no», caro razzista, e di fronte alla urgenza di «scelte politiche impegnative e radicali», si elude il problema e si dirotta «la rabbia sociale contro il capro espiatorio dei migranti». Quindi Ciotti evoca un altro bambino, morto. Aylan, si chiamava, annegato su una spiaggia turca. Ci emozionò, quella foto. Ma oggi immagini simili – quante ce ne sono – provocano l’ effetto contrario, «commenti rabbiosi e cinici, nei social e non solo, e addirittura verso chi prova a soccorrerli o esprime dolore e compassione».

Cosa è successo? Il razzismo non è più un tabù, e «incombe oggi sul nostro Paese. Parlo del razzismo nella sua accezione più cruda, la pulsione ostile, aggressiva nei confronti di chi è percepito come diverso, per il colore della pelle o per abitudini di vita, lingua, religione». Lo si è visto «80 anni fa nei confronti degli ebrei (e sappiamo come è finita)», e non c’è “solo” quell’«orango» detto a una ministra di origini africane, «il lancio di banane o l’ululato allo stadio all’indirizzo di calciatori di colore», e Koulibaly, che si è fatto espellere «in una partita importante, lui che è un giocatore correttissimo, perché non ne poteva più dei buuu era giusto o no, secondo te, sospendere quella partita, visto che il regolamento del calcio lo prevede in caso di razzismo? La mia risposta è sì, ma non è stato fatto». Poi c’è Traini che spara a Macerata, e si arrende avvolto nel tricolore. I morti. Idy Diene, ucciso a Firenze. Soumalya Sacko, ucciso a San Calogero.

Quindi «pensaci. Che cos’hanno alle spalle il nazismo e la Shoah se non il razzismo, l’ indifferenza diffusa, la degradazione della coscienza collettiva?». Siamo dunque ai livelli di una pre-nazificazione? Ciotti non lo cita, ma a questo punto serve rileggere (e volantinare per strada) un libro del 1965, Come si diventa nazisti di William S. Allen, dove si spiega come un’associazione dopo l’ altra, coinvolgendo bambini, commercianti, confraternite, le donne, piano piano nella città di Nordheim si arrivò alle leggi razziali, tutti pienamente convinti di essere nel giusto. La propaganda di oggi lavora pancia a terra, «prima gli italiani!
», «aiutiamoli a casa loro!» (ma nessuno lo fa), «l’ invocazione dell’ uomo forte al comando è l’anticamera del fascismo», scrive Ciotti, o forse siamo già un passo più in là.

la Repubblica, 20 febbraio

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